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giovedì 15 ottobre 2015

Immigrati - I Cie sono inutili e dannosi. Reclusi per mesi stranieri che non possono essere espulsi

Il Manifesto
I Cen­tri di iden­ti­fi­ca­zione e di espul­sione per stra­nieri irre­go­lari (Cie) sono non­luo­ghi pre­ci­pi­tati nello spa­zio ottu­sa­mente vuoto di un non­tempo. 

CIE di Ponte Galeria - Roma
Forse le sedi più cru­deli di pri­va­zione della libertà pre­senti nel nostro Paese: ed è pro­prio per que­sta ragione che intorno alla loro natura e alle loro fina­lità, alle norme che li rego­la­men­tano e alle ini­quità che vi si con­su­mano, si gioca una par­tita dura, molto dura, dall’esito incerto, con­dotta su molti piani.
Uno di que­sti, tutt’altro che secon­da­rio, è quello giu­di­zia­rio. E da qui pro­viene, final­mente una buona noti­zia. Qual­che giorno fa, la Cas­sa­zione, con sen­tenza 18748/15, ha annul­lato il prov­ve­di­mento di trat­te­ni­mento nel Cie di Ponte Gale­ria, all’estrema peri­fe­ria di Roma. Prov­ve­di­mento a carico di un cit­ta­dino libico di etnia tua­reg impu­gnato dall’avvocato Ales­san­dro Fer­rara, col­la­bo­ra­tore dell’Associazione A Buon Diritto. 

Il periodo di per­ma­nenza all’interno di quel cen­tro era stato più volte pro­ro­gato, nono­stante la stessa auto­rità libica in Ita­lia si fosse da subito oppo­sta al rim­pa­trio, per­ché avrebbe espo­sto lo stesso trat­te­nuto «a un grave rischio per la pro­pria vita e inco­lu­mità». Quelle stesse auto­rità ave­vano con­sta­tato, inol­tre, che l’impossibilità del rim­pa­trio costi­tuiva «una situa­zione per­ma­nente» e non tran­si­to­ria, che dun­que faceva venir meno anche la neces­sità del trat­te­ni­mento. 

Si tratta di una sen­tenza molto impor­tante che con­ferma la totale ina­de­gua­tezza di una misura come l’ingresso nel Cie per per­sone che, sin dal prin­ci­pio, si rive­lano ine­spel­li­bili. Ne sono un esem­pio tutti coloro che ven­gono trat­te­nuti più volte, anche sei o sette, senza che le auto­rità siano in grado di pro­ce­dere al rim­pa­trio per man­canza di indi­ca­zioni atten­di­bili sulla loro nazio­na­lità. Basti pen­sare ai rom pro­ve­nienti dalla Bosnia o dalla Ser­bia che non ven­gono rico­no­sciuti come cit­ta­dini di quei paesi a causa di pro­fondi cam­bia­menti geo­po­li­tici avve­nuti nel corso degli anni ’90. La con­di­zione di irre­go­la­rità, dif­fi­cile da sanare, li con­danna a ripe­tuti trat­te­ni­menti che si con­clu­dono sem­pre in un nulla di fatto.

Eppure baste­rebbe che anche solo una delle figure pro­fes­sio­nali con cui ven­gono in con­tatto — assi­stenti sociali, avvo­cati, giu­dici di pace, fun­zio­nari della Que­stura — for­nisse loro qual­che infor­ma­zione su come acce­dere al rico­no­sci­mento dello sta­tus di apo­lide. Tut­ta­via, c’è da dire che, anche se quell’informazione fosse più acces­si­bile, rimar­rebbe fati­coso com­ple­tare la pro­ce­dura, il cui esito si deter­mina in sede giu­di­zia­ria più che amministrativa.

Ma il caso dei rom è solo uno tra i molti pos­si­bili. In gene­rale, il man­cato rico­no­sci­mento da parte delle auto­rità con­so­lari, non sem­pre coin­cide con il rila­scio della per­sona trat­te­nuta, come inse­gna la vicenda qui ricordata.
E tutto ciò dimo­stra come, a pro­po­sito dei cen­tri di iden­ti­fi­ca­zione e di espul­sione, ci sia ancora molto da fare. Uno spi­ra­glio si era aperto con la ridu­zione dei tempi di trat­te­ni­mento da diciotto a tre mesi; con l’emanazione del rego­la­mento nazio­nale; e, infine, con il rece­pi­mento della diret­tiva euro­pea sull’accoglienza. Si è trat­tato di tre impor­tanti occa­sioni che, però, non hanno miglio­rato le con­di­zioni di vivi­bi­lità all’interno di quei luo­ghi. Addi­rit­tura si può dire che, con l’ultimo prov­ve­di­mento, quelle con­di­zioni sono desti­nate a peg­gio­rarle. E ciò per­ché sono state intro­dotte spe­ci­fi­che indi­ca­zioni sulla reclu­sione di una par­ti­co­lare tipo­lo­gia pro­fu­ghi, all’interno dei Cie per un periodo fino a dodici mesi.
Insomma, appare sem­pre più evi­dente che il trat­te­ni­mento venga uti­liz­zato come stru­mento puni­tivo nei con­fronti di chi non abbia i docu­menti in regola; e che poco si fac­cia per pro­muo­vere misure alter­na­tive al trat­te­ni­mento e altre forme di rimpatrio. 

I costi umani ed eco­no­mici che la per­ma­nenza nei Cie com­porta sono ormai troppo alti se con­fron­tati con il numero di rim­pa­tri effet­ti­va­mente rea­liz­zati. Ancora oggi, appena il 50% dei trat­te­nuti viene ripor­tato nel paese di ori­gine. Un mezzo fal­li­mento pro­prio rispetto allo scopo per il quale quei luo­ghi orri­bili sono stati creati.

di L. Manconi e V. Brinis

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