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mercoledì 26 settembre 2018

Rifugiati, non farli lavorare fa male all'integrazione (e all'economia)

WIRED
La possibilità di lavorare per gli immigrati rifugiati è la chiave di un’integrazione vantaggiosa per tutti. Mentre imporre un divieto anche temporaneo di accedere al mercato del lavoro, pratica comune in Europa sostenuta da chi teme la competizione o da chi vuole scoraggiarne la permanenza dei nuovi arrivati nel proprio paese, ha un costo, non solo per gli immigrati stessi, ma anche a livello sociale ed economico. 


Sbarrando questa porta, infatti, i rifugiati rimangono dipendenti dai governi e non riescono a pagare le tasse, una scelta che non conviene a nessuno. A mostrare e documentare questo dato è uno studio condotto da un team della Stanford University e della Eth Zurich, il politecnico federale di Zurigo. I risultati sono pubblicati su Science Advances.

In generale la maggior parte dei paesi europei prevede un divieto dell’ingresso nel mondo del lavoro che va dai 6 ai 12 mesi, un tema a lungo dibattuto, le cui conseguenze finora non risultavano chiare a causa della difficoltà di studiare dal punto di vista scientifico gli effetti a lungo termine senza confonderli con altri fattori che possono intervenire. 

Così i ricercatori hanno deciso di studiare un caso che risale a qualche anno fa, prendendo in considerazione due gruppi di rifugiati jugoslavi che hanno raggiunto la Germania, nel 1999 oppure nel 2000. La scelta dell’anno non è stata casuale: proprio nel 2000, infatti, c’è stato in Germania un cambio di legislazione che ha visto una riduzione del divieto di lavorare da 24 a 12 mesi. Così, il gruppo arrivato nel 1999 avrebbe dovuto attendere sette mesi in più per poter entrare nel mercato del lavoro, il periodo mancante al raggiungimento dei 24 mesi previsti per loro.

A partire da questi due gruppi, i ricercatori hanno studiato i tassi di occupazione a distanza di anni e le eventuali conseguenze dei sette mesi in più di inattività forzata per il primo campione di persone. Cinque anni dopo, nel 2005, soltanto il 29% degli individui nel gruppo arrivato nel 1999 lavorava, contro il 49% delle persone nell’altro gruppo. Una differenza, questa, che secondo gli autori non può essere spiegata attraverso cambiamenti dell’economia e del mercato del lavoro: immigrati arrivati in Germania dall’attuale ex Jugoslavia nel 2000 e 2001, infatti, presentavano circa gli stessi tassi di occupazione, e lo stesso vale anche per i turchi giunti fra il 1999 e 2000 e non colpiti dal blocco del lavoro. Insomma, le differenze nelle percentuali di occupati sono attribuibili a questi sette mesi di sbarramento in più, un gap che dal 2000 si appianerà soltanto 10 anni dopo, nel 2010.

E la disoccupazione, sia imposta sia involontaria, può avere effetti molto negativi. In primo luogo per i rifugiati stessi, che sperimentano scoraggiamento e demoralizzazione, che può portare a una vera e propria sindrome, lo scar effect, o effetto cicatrice, comune fra chi ha subito un trauma (violenze, persecuzioni, abusi), per cui anche una volta conclusa il blocco forzato del lavoro la motivazione per darsi da fare per trovarlo scarseggia. “Politiche come il divieto dell’occupazione sono di vedute ristrette”, commenta il ricercatore Moritz Marbach, ricercatore post-doc alla Eth Zurich e coautore dello studio. “Invece di avere rifugiati che dipendono dal welfare del governo per anni, i paesi dovrebbero capitalizzare la loro motivazione iniziale e favorirne una rapida integrazione”.

Anche perché, oltre agli svantaggi a livello individuale per gli immigrati, per la loro salute generale, gli effetti negativi si manifestano anche sull’economia del paese ospitante e di tutti i cittadini, a lungo termine. Basti pensare, infatti, che i costi per i contribuenti dovuti al divieto del lavoro in Germania nel 2000 sono stati stimati nella cifra di 40 milioni di euro all’anno dal 2001 al 2009, per le spese per il welfare e per le mancate entrate legate alle tasse da parte dei rifugiati disoccupati. In questa cornice, inoltre, gli occupati nativi del paese non beneficiano dell’esclusione degli immigrati, come emerge da studi precedenti: ironia della sorte, queste strategie di blocco nascono per iniziativa dei decisori politici che vogliono rassicurare i cittadini dell’assenza di minacce a livello lavorativo. Ed è un cane che si morde la coda: quando i cittadini percepiscono gli immigrati come un peso per il welfare scatenano una reazione negativa ancora più forte contro gli stessi decisori politici.

Insomma, un’integrazione migliore e più rapida porta vantaggi a tutti: tutto sta nel considerare gli immigrati non come un peso da ridurre ma come una risorsa da poter massimizzare e valorizzare. Come? Permettendogli di lavorare subito.

Paola Pintus

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