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domenica 23 giugno 2019

Carceri: tre morti in due giorni. Motivi di salute a Poggioreale, suicidi a Rosarno Bologna

L'Espresso
Tre morti in due giorni nelle carceri italiane. "Italian first". Sì, i tre morti erano tutti detenuti italiani. Uno di loro pare sia morto per motivi di salute nel carcere napoletano di Poggioreale. Gli altri due si sarebbero suicidati, rispettivamente, nelle prigioni di Rossano e Bologna. 

Notizie di proteste collettive, talvolta troppo enfaticamente definite rivolte, si sono susseguite nelle ultime settimane: da Napoli a Campobasso, da Spoleto a Rieti, da Viterbo ad Agrigento.

Che sta succedendo, dunque, nelle carceri italiane? Non si può certo individuare un'unica causa o un filo rosso che possano spiegare integralmente quanto sta avvenendo. Le spiegazioni non sono mai semplici o univoche. Il carcere è un luogo di sofferenza. Molto è determinato da quei dettagli di vita quotidiana che, sia nelle persone libere che in quelle recluse, rendono le persone più o meno sane e serene. La recente decisione di procedere allo spegnimento obbligatorio delle televisioni a mezzanotte per il riposo notturno o la, seppur, involontaria mancanza di acqua in alcune carceri nel pieno della calura estiva, hanno ingenerato conflitti.

La qualità della vita in prigione è altresì messa a rischio dalla riduzione dei tempi e degli spazi di socialità, prodotti da un ritorno a un'idea di carcerazione pre-moderna secondo la quale la chiusura in carcere coincide con la chiusura in cella per oltre venti ore. 

Se a ciò aggiungiamo una minore propensione dei giudici di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione e, di conseguenza, un sovraffollamento crescente che ci riporta vicini a quei numeri assoluti che produssero la sentenza di condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte europea nel 2013, allora si comprende come gli istituti penitenziari rischino un drammatico ritorno a un passato fatto di chiusura, violenza, tensioni. Non ce ne è proprio bisogno.

Per evitare tutto questo ci vuole una nuova grande e coraggiosa stagione di innovazione nelle carceri, questa volta partendo dai modelli organizzativi e dal personale. È scontato dirlo, ma se non avremo un personale sia di Polizia che civile gratificato, sereno, motivato non sarà facile perseguire obiettivi di normalità penitenziaria. È necessario immettere energie nuove nel sistema penitenziario, ossia giovani e qualificati direttori, giovani e qualificati operatori sociali, giovani e qualificati poliziotti.

Ci vuole una rivoluzione antropocentrica che non può che partire da chi ha il dovere della custodia di esseri umani. È necessario trattare al meglio chi lavora nelle carceri nel solco della legalità penitenziaria e prospettare avanzamenti di carriera sulla base del loro attivarsi per il rispetto dell'articolo 27 della Costituzione (il quale affida agli operatori una missione chiara, ossia la gestione di una pena umana e tendente alla risocializzazione). È anche importante favorire processi di mobilità volontaria presso altre amministrazioni pubbliche per quegli operatori che hanno per molto tempo lavorato in carcere. In galera la vita è usurante per tutti.

Infine è necessario avere un'attenzione alla cultura del linguaggio che è anche cultura del rispetto. In alcuni siti penitenziari il detenuto è, in modo offensivo e volgare, definito "camoscio". Questo non è gergo, non è slang, questa è sotto-cultura che va repressa dalle istituzioni penitenziarie.

Patrizio Gonnella

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