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venerdì 13 maggio 2016

Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio

La Stampa
In pochi hanno i soldi per partire, gli altri sono bloccati nei campi in mezzo al deserto. I fondi stanziati dall’Unione europea finiscono per alimentare la corruzione

di Domenico Quirico - Inviato a Bol (Ciad)

Abitazioni bruciate dopo i combattimenti tra le forze di sicurezza e i miliziani di Boko Haram a Baga
Xenofobi, innalzatori di muri, innamorati dei fili spinati e delle barriere, non state in ansia! La maggior parte di costoro non arriverà da noi su squarci di caravelle tarlate, non busserà inopportunamente a Lampedusa, Lesbo, Ceuta mossa dal fanatismo della povertà e dell’avventura. Sono troppo poveri, sono uomini, donne, bambini nudi.
Per la Grande Migrazione occorre avere un po’ di denaro, una mucca da vendere o le capre, un sacco di miglio che doveva servire per la semina, un parente pietoso già in Europa. Loro non hanno monete per pagare il passaggio su un camion che li porti fino a N’Djamena.

Non hanno scarpe per camminare su queste sabbie selvagge abitate dal torvo popolo dei fanatici del Dio musulmano, non hanno telefonini per cercare mercanti di esseri umani che li trasformino in un affare redditizio. Non hanno niente.

Sfollati dagli islamisti
Sono venuto qui, a questo lago-mare, per cercarli, vederli, parlare. Solo i ciadiani sono centomila, con i Paesi vicini gli sfollati dai Boko Haram salgono a due milioni. Nulla più, qui, di aperto e di buono, di giusto e di buono, come nulla di infantile o di vecchio. Vi è solo dolore; e la ferocia, che è del dolore.
La città di Bol è di un bruno calcareo, spoglia. Pare una necropoli, che dalle finestre delle case debbano uscire corvi, in volo. Tutto è di creta secca, scura. È ancor più in là dell’Africa, in un continente ulteriore dove sia città essa sola. Ma qui il lago c’è ancora, metti le mani nell’acqua e fosforo, ti sale tra le dita. Gli schiamazzi dei bambini occupano la cittadina solo a zone, ciuffi d’alberi nel deserto. Attorno la terra sfuma in nulla rapidamente, logora di stagni e paludi che sembrano spazi vuoti, spazi puri. E il Ciad anche lui è di nulla, di una bianchezza di mare morto.

Ora c’è nell’aria un eccitante squallore, il gran giallo delle sabbie. La canicola, la burrasca bianca dei cavalloni di polvere alzati dai pick up montati da soldati in sudice uniformi di tela e dai fuori strada delle organizzazioni umanitarie.
La gente osserva i fuori strada che passano come astronavi, qui la luce è un miracolo, l’acqua una speranza. Se vieni nel Sahel senti, non è la prima volta per me, che l’Africa entra nel tuo destino come una condanna.

Capanne di rami e canne
Le capanne di rami e di canne che credevamo asili per le capre si rivelano case, che sembrano, al sole, di sabbia pure esse. Ho visto il nulla della fatica quotidiana, una giovinetta che con grandi bracciate cercava di far salire l’acqua da un pozzo. Fatica che serve per un tozzo di pane, e tozzo di pane che serve alla fatica. Gli uomini stanno fuori, a crocchi, con le vesti avvolte attorno alle spalle fin sugli occhi per via della polvere. Stanno immobili come spettri che non hanno di vivo che lo scintillio degli occhi e guardano lontano senza mai dirsi una parola. Conducenti d’asini corrono agitando le braccia come indemoniati in una nuvola di polvere, emettendo brevi grida acute per impedire ai loro asini di farsi travolgere dalla vettura.

Villaggi interi in cammino
Dove il deserto è assoluto, sprofonda, raschiato dalla canicola incontri gli sfollati. L’avanzata degli islamisti nigeriani e la brutalità dei soldati che dovrebbero difenderli li ha cacciati dalle fertili isole del lago, e dalle rive già fin troppo abitate. Allora, a gruppi di famiglie, a villaggi interi, si sono messi in cammino dove la memoria dei vecchi li portava. Senza avere con sé più nulla. Un tempo abitavano qui, prima di spostarsi sul lago: ma allora erano terre benedette perché il lago era molto più grande. Nessuno stavolta li ha cacciati: perché qui non c’è più nulla. Qui davvero è deserto: per questa solitudine di ogni cosa, di ogni duna che par chiusa in se stessa, e di ogni albero o viandante che si incontra. E per questa luce e per questa immensità di cespugli tutti eguali, tutti rachitici. La tempesta solleva un pulviscolo che non è terriccio e non è sabbia, una specie di polline vecchio che sa di muffa e avvolge tutto come un velo sterminato. La terra è saccheggiata da questo vento, lunghe pianure appaiono sospese nell’aria. Là è il lago, quell’aria. Disabitato come la luce del primo giorno. E le capanne sono accovacciate, storpie dalla furia che trascorre.

È vecchio, robusto, faccia dura, occhi duri, capelli fitti e crespi. Si dice contadino e se ne vanta. Ma la voce è un soffice brontolio, come di lana. È vestito di stracci che gli svolazzano addosso come piume, non ha più campi, o bestie. «I Boko Haram sono belve, serpi, ma è fare alle bestie un’ingiuria a dire così. Venivano, rubavano portavano via le donne, e i ragazzi giovani per farne sollazzo e combattenti. E noi ad aspettare i gendarmi e i soldati…. Sono venuti, dopo, e ci hanno detto: via, toglietevi di qua se no vi tratteremo da Boko Haram. Volete sapere dove andare? Dove vi pare, il Ciad è grande».

Ci guarda: «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che ci accadono». «Non bisogna piangere? Uomini, donne, bambini sono morti e non bisogna piangere?». «Se piangiamo li perdiamo, non bisogna perderli, se piangiamo rendiamo inutile ogni cosa».
Le donne passano invisibili sotto le grandi cappe colorate tra le cui pieghe si apre una specie di fenditura da dove sporge la testolina incantevole di un neonato tenuto in braccio.

A colloquio con i morti
Il terrore dei Boko Haram lo capisco quando uno psicologo ciadiano che lavora in un campo di rifugiati mi racconta che le vittime hanno difficoltà a parlare con lui, non svelano gli orrori di cui sono stati vittime o testimoni: non parlano con me, vanno al cimitero, a parlare con i morti… a loro si possono confessare».

La morte è lì nel cimitero e diventa liberazione quando sulla terra più che per viver bene, ci si dura per prepararsi a morire. Conoscono la luminosa spiegazione che la loro fede dà della morte, per averla sentita nella preghiera o per averla quasi respirata nell’aria. Ricacciano il dubbio: il Dio in nome del quale sono stati martoriati non è lo stesso che li accoglierà alla fine dei giorni?

Ci prepariamo a rovesciare su questi Paesi altro, molto denaro: perché non abbiano più ragione di partire. Se percorrete la pista che dalla capitale porta qui, e sono trecento chilometri, nove, dieci ore, ad ogni villaggio trovate grandi cartelli colorati, in metallo, con la bandiera ciadiana e quella dell’Unione europea. Alcuni sono vecchi, semisommersi dalla sabbia, sghembi, altri hanno colori ancor vivi. Simboleggiano centinaia di progetti : acqua per il villaggio…; riabilitazione rurale del distretto…; progetto di incremento agricolo…; sviluppo sanitario… Non c’è nulla di tutto questo. Polvere, sabbia, pianure di terra riarsa, fiumi rinsecchiti. Dove sono finiti i soldi che abbiamo rovesciato qui, da decenni? Chi li ha rubati?

I nostri amici laici 
A N’Djamena ho visto solo tre cose nuove, moderne: la Versailles del presidente, una residenza-città lunga chilometri; i fucili e le uniformi dei soldati che fanno la guardia che sembrano cadetti usciti da Saint-Cyr; e il nuovo ministero degli Esteri, in vetrocemento, per un Paese così povero da non avere ambasciate. In Niger, in Mali, in Mauritania, in Nigeria è lo stesso. Ecco la spiegazione. Qui finiscono i soldi. E le cancellerie occidentali lo sanno: ma questi sono i nostri alleati, i nostri amici laici, organizzatori di elezioni, che si può fare? La volontà di aiutare c’era, il fallimento dà le vertigini. Oggi per svincolarci dall’incomodo dei sudditi di questi satrapi, sguaiati e maneschi inettitudini diplomatiche ripescano la stessa formula: aiutare l’Africa in Africa, ci pensino loro. È falso che la storia sia maestra di vita: e non perché la maestra non insegni ma perchè gli scolari sono zucconi, non imparano.

Il Ciad è proprietà personale del presidente Deby: che abbia conquistato il potere con un colpo di Stato non lo ricorda nessuno, forse perché è avvenuto ventisei anni fa. E dopo? Elezioni su elezioni, con tanti partiti e bandiere colorate di simboli. Solo che le vince sempre il suo, che ha come simbolo una zappa e un fucile. L’ultima due settimane fa, i rivali gridano alla ennesima truffa, lui festeggia e parla di sviluppo e rinascimenti. Durante i giorni del voto ha spento tutti i telefonini del Paese, inchiavardato Internet. Non si sa mai: questa è la modernità. Lo hanno suggerito forse i francesi, a cui è simpaticissimo e da cui trae importanti beneplaciti padronali: ovvio, fornisce loro economiche fanterie per combattere i jihadisti e soprattutto tenere in riga la «Francafrique».

Ah la «Francafrique»! Non tramonta mai, la conservano, Gauche e Droite, meglio del Louvre. Nell’albergo uomini di affari francesi si distendono tra un contratto e l’altro, a bordo piscina, con signorine locali la cui gentilezza ha curve commisurate alle grazie effettive. È incredibile quanto denaro si può estorcere nei Paesi più poveri del mondo! All’ingresso dell’enorme base militare francese vicino all’aeroporto ci sono gli stemmi della République: come in una qualsiasi gendarmeria dell’Exagone. È nelle tasche di obbedienti palafrenieri della Francia come Deby a cui l’idea del «nòmos» non entra in testa, che rovesceremo i miliardi per evitare i migranti: noi avremo ancora i migranti e la Versailles di Djamena sarà ancora più vasta e scintillante.

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