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venerdì 16 settembre 2016

L'inferno dei 75mila profughi ostaggi nel deserto tra Siria e Giordania

Avvenire
Le pietre ammassate descrivono una circonferenza sul terreno sabbioso. Un sasso più grande è conficcato, come una lapide. Le immagini, catturate dal satellite, sono inequivocabili. Si tratta di tombe. Una, due, due, tre, decine. Tutto attorno ai tumuli si stende, come un gigantesco polveroso alveare, il campo profughi nel quale – è la denuncia di Amnesty International, che ha mostrato le immagini dell’orrore – vivono “imprigionati” 75mila profughi siriani. 


Il cimitero vicino al campo improvvisato al confine tra Siria e Giordania
La loro fuga si è arenata qui, in questa «terra di nessuno» tra Siria e Giordania, dopo che Amman ha “chiuso” ai rifugiati, negando qualsiasi possibilità di accesso al Paese. Abu Mohamed è chiuso nel campo – una sorta di “lago” artificiale di sabbia per fare da cuscinetto tra i due Paesi – da giugno. La sua testimonianza è drammatica. «Abbiamo acqua da bere ma quasi niente cibo e latte. È terribile. Sono morte molte persone», racconta.

Da due mesi la situazione del campo si è fatta, se possibile, ancora più tragica. Dopo l’attentato che il 21 giugno ha causato la morte di sette agenti della polizia di confine, la Giordania ha chiuso i valichi di frontiera di Rukban e Hadalat, bloccando «completamente la già limitata fornitura di assistenza umanitaria alle persone intrappolate». Spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: «Queste persone non ricevono più cibo da due mesi. L’ultima volta gli aiuti sono stati lanciati con una gru. Poi più nulla. E le scorte si stanno rapidamente assottigliando». La (fragile) tregua nel Paese potrà alleviare le sofferenze per questi profughi? «È difficile – dice Noury – nessuno si fida: tornare indietro significherebbe per molti esporsi nuovamente ai rischi dei raid russo-siriani».

Nel campo si muore. «L’assenza di cure mediche adeguate e le drammatiche condizioni di vita hanno conseguenze letali. La mancanza d’igiene, la situazione sanitaria e il limitato accesso all’acqua potabile hanno provocato numerosi casi di epatite, che si ritiene essere la principale causa di morte tra i bambini», denuncia Amnesty. Da giugno, secondo fonti umanitarie, vi sono stati almeno 10 decessi causati dall’epatite, nella maggior parte dei casi per itterizia. Gli operatori hanno riferito della morte di almeno nove partorienti. «La situazione – dice Tirana Hassan, direttrice per le risposte alle crisi di Amnesty International – è un’amara fotografia delle conseguenze della vergognosa mancanza di condivisione delle responsabilità per la crisi globale dei rifugiati, a seguito della quale molti Paesi confinanti con la Siria hanno deciso di chiudere le loro frontiere ai rifugiati». Le Nazioni Unite stanno negoziando con le autorità giordane un piano che preveda l’apertura di centri di distribuzione degli aiuti umanitari a due chilometri di distanza dal confine: una sorta di zona franca nella “terra di nessuno”, che consentirebbe la ripresa della fornitura di aiuti.

La tregua, sempre più fragile, sempre più a rischio, che doveva consentire agli aiuti umanitari di raggiungere le popolazioni martoria dal conflitto, si sta rilevando “impotente”. Un’occasione che rischia di naufragare. Nessun aiuto è stato ancora consegnato, anche se le forze armate siriane hanno cominciato il ritiro di truppe e armamenti pesanti per creare una zona demilitarizzata ad Aleppo. E Mosca ha annunciato di aver fermato al momento i raid. «Si sta perdendo tempo», ha denunciato l’inviato speciale Onu per la Siria, Staffan de Mistura. «Il governo di Damasco – ha insistito il diplomatico – non ha ancora fornito l’autorizzazione ai convogli dell’Onu per l’accesso a cinque aree del Paese». Diversa la versione offerta da Mosca. Che incolpa gruppi ribelli. Impedirebbero loro la consegna degli aiuti. Secondo il rappresentante permanente della Russia presso la sede Onu di Ginevra, Alexey Borodavkin, i due convogli di 20 camion sono alle porte dei quartieri orientali ddi Aleppo, ma i ribelli minacciano di aprire il fuoco contro i convogli.

«Da troppo tempo – è l’appello della Comunità di Sant’Egidio – il popolo siriano attende quella pace che è stata grave responsabilità negargli da parte degli attori sul terreno e da una comunità internazionale a lungo immobile. La speranza è che questa tregua renda possibile l’invio immediato di aiuti alla popolazione, soprattutto ad Aleppo e negli altri luoghi a lungo esclusi dall’assistenza umanitaria. Sarebbe doveroso che le forze in campo cogliessero questo momento di relativa calma per iniziare un serio negoziato di pace».
E mentre si parla di un nuovo round negoziale tra l’opposizione e il governo siriano da tenersi a fine settembre, la tregua – fa sapere ancora Mosca – sarebbe stata violata 45 volte. Nel giro di 24 ore.




Luca Miele

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