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giovedì 5 settembre 2013

Ciad - Prigionieri dimenticati e morti in carcere una denuncia da Ndjamena

MISNA
“Cinque prigionieri sono morti asfissiati in una cella di quattro metri per quattro, senza finestre, nella quale sono rinchiuse fino a 70 persone. I detenuti passano la notte per lo più in piedi oppure seduti come possono uno sopra l’altro. Anche durante la stagione delle piogge, come ora, fa caldo e non circola l’aria”: è la denuncia trasmessa alla MISNA da fonti locali in merito alle condizioni “disumane” per i prigionieri del carcere di Am Sinene, il più grande della capitale N’Djamena.


Le ultime cinque vittime hanno perso la vita nella notte tra martedì 27 e mercoledì 28 agosto nella prigione che dovrebbe ospitare al massimo 500 persone ma dove attualmente i detenuti sono almeno 1500. “Oltre che per il sovraffollamento delle celle, le condizioni sono disumane anche per la mancanza di cibo, mentre l’acqua, quando c’è, è sporca e non filtrata. Tanto è vero che i prigionieri si ammalano e non vengono nemmeno curati” aggiungono le stesse fonti, anonime per motivi di sicurezza. “Per non parlare di tutti quei prigionieri dimenticati, finiti dentro senza alcun capo d’accusa, e che poi rimangono a lungo in assenza di un intervento di legali o difensori dei diritti umani” concludono gli interlocutori della MISNA lanciando un grido d’allarme alla comunità regionale ed internazionale “per porre fine a questo stillicidio”.

Da anni inchieste e rapporti di organizzazioni di difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, denunciano “trattamenti crudeli, disumani e degradanti nelle carceri ciadiane dove vigono condizioni di detenzione spaventose” a causa del sovraffollamento, della mancanza di acqua, cibo e medicinali ma anche delle esazioni inflitte dalle guardie carcerarie in “totale impunità”.

Dallo scorso 1° maggio, giorno del presunto complotto ai danni del presidente Idriss Deby Itno, attivisti e esponenti della società civile hanno lanciato l’allarme per l’arresto arbitrario di diversi esponenti delle forze di sicurezza ma anche di parlamentari e giornalisti, definendolo “un pretesto delle autorità per rafforzare il dispositivo di sicurezza a scapito del rispetto dei diritti umani”.

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