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giovedì 19 aprile 2018

Tra i Rohingya che sfidano i monsoni. “Meglio nel fango che perseguitati”

La Stampa
Nei campi del Bangladesh i venti minacciano 150 mila profughi: “Lottiamo contro il tempo”
Fervono i lavoro nel campo per consolidare le baracche
«I monsoni spazzeranno via tutto. Lottiamo contro il tempo». Manuel Pereira, coordinatore per il Bangladesh dell’agenzia Onu per le migrazioni (Oim), sta insegnando ai Rohingya che vivono nel campo profughi più grande del mondo a costruirsi una baracca di plastica e bambù. «Fate una croce alla base dei pali, saranno più stabili» dice guardando preoccupato il nuvolone che fa sembrare la sottozona di Balukhali («sabbia vuota») una colonia lunare: gli uomini fanno su e giù dalle colline con la legna, i bambini inseguono i venditori di ghiaccioli, le donne, avvolte in lunghi chador, si aggirano silenziose con la spesa acquistata nei negozi del Wfp. Da mesi sopravvivono in un limbo giuridico ed esistenziale. Ma quello che si sono lasciati alle spalle nello stato del Rakhine, in Myanmar, è peggio. «I soldati hanno bruciato la mia casa» racconta Abdur Arfat, 20 anni, che proviene da Maungdaw. «Meglio morire nel fango che farsi ammazzare dal Tatmadaw (l’esercito birmano, ndr) com’è successo a mio padre» aggiunge Mohammed Rahman, 17 anni.

L’esodo di questa minoranza musulmana in fuga dalle discriminazioni dei monaci buddisti più integralisti e dalle violenze ha avuto due picchi: nei primi anni Novanta (la legge sulla cittadinanza del 1982 non la riconosce fra le 135 etnie del Myanmar), e nell’autunno scorso, con 682 mila nuovi arrivi. «È la crisi peggiore dai tempi del Rwanda» sintetizza Suranga Mallawa del dipartimento di Protezione civile e assistenza umanitaria della Ue (Echo).

Oggi nel distretto di Cox’s Bazar, famoso per la sua lunghissima spiaggia, ci sono 865 mila migranti: 33 mila registrati come rifugiati e altri 832 mila «contati» dal governo di Dacca, che li accoglie definendoli «cittadini birmani senza documenti». La maggioranza vive nel megacampo cresciuto attorno a Kutupalong scacciando gli elefanti: è grande come Lisbona e per attraversarlo a piedi ci vogliono sette ore. Gli altri sono ospiti delle comunità locali con le quali condividono la religione e il 70% della lingua.

La vita nei campi scorre fra code per le razioni di riso e monotonia. Seduto sotto una pianta di akashmoni nell’accampamento di Jadimura, Sirajul Islam, 40 anni, non trattiene le lacrime: «Voglio tornare a casa». Corre nella capanna a prendere i documenti che dimostrano la sua storia: il foglio blu consegnato dal governo di Naypyidaw nel 2014 che lo definisce «ospite straniero» e una fotocopia del documento d’identità bianco che invece gli aveva permesso di votare alle elezioni del 2010. Oggi nel Parlamento del Myanmar non ci sono musulmani. I motivi delle persecuzioni, e dello speculare crollo dell’immagine di Aung San Suu Kyi, vanno cercati nel cortocircuito fra buddismo theravada, identità nazionale e rapporti con le minoranze che fa da sfondo al processo di democratizzazione dell’ex Birmania.

Fra le baracche la paura per i 200 mila Rohingya rimasti nel Rakhine convive con quella di affrontare i monsoni. Sono attesi per maggio e l’Onu ha calcolato che 150 mila profughi potrebbero sparire sotto 2,5 metri d’acqua. «I rifugi sono costruiti su colline dove anche i fili d’erba sono stati sradicati per cucinare - spiega Caroline Gluck dell’Unhcr -. L’altro pericolo sono le epidemie di difterite e colera. Qui non c’è più spazio». Eppure il flusso prosegue. «Quelli che hanno arrestato mio marito mi ripetevano: “Sei bengalese e musulmana, qui non puoi stare”. Dove altro potevo andare?» si interroga Masuma, arrivata a fine marzo con tre figli. Il primogenito è già da mesi con uno zio a Balukhali, dove frequenta una madrassa. Nei campi l’istruzione è affidata per lo più agli imam e i monsoni sono il problema principale solamente a breve termine. Ce ne sono altri che rimangono stagnanti: l’analfabetismo e il rischio radicalizzazione. I cooperanti confermano che nei report sulla sicurezza si parla dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) e di focolai jihadisti. «Più andrà avanti la crisi più la minaccia potrebbe concretizzarsi» ammette Mohammad Abdul Kalam, commissario del Bangladesh per l’assistenza e il rimpatrio dei rifugiati. E poi c’è la bomba demografica: secondo «Save the children» nei prossimi mesi ci saranno fra i 60 e i 100 mila parti. Molti sono i figli degli stupri commessi dai militari birmani.

Come uscirne? La Marina del Bangladesh ha ufficializzato il progetto da 280 milioni di dollari che a giugno prevede di trasferire 100 mila Rohingya sull’isola disabitata di Bhasan Char, nel golfo del Bengala. La comunità internazionale spinge invece perché i Rohingya tornino nelle loro terre in modo «sicuro, volontario e dignitoso». Il 12 aprile c’è stata l’unica visita di un ministro birmano (Affari sociali) nei campi profughi, seguita dall’annuncio di un primo rimpatrio: 5 persone.

I tempi della diplomazia sono lunghi. Intanto migliaia di Rohingya potrebbero sfidare il Mar delle Andamane, finendo come schiavi sui pescherecci thailandesi e nelle case di Kuala Lumpur, mentre il mondo si gira dall’altra parte. Non è un caso che il governo di Sheikh Hasina sottolinei con ogni mezzo che Cox’s Bazar deve tornare a essere una località turistica: nei campi è vietato utilizzare materiali di costruzione duraturi e i Rohingya non hanno libertà di movimento. «Ieri è arrivato un uomo con un cancro che altrove sarebbe curabile - confessa Karin Smo della Croce Rossa, direttrice dell’unico ospedale con una sala operatoria -. L’abbiamo dovuto mandare nella sua capanna a morire».

Francesco Moscatelli - Inviato a Cox’s Bazar 

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