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martedì 15 gennaio 2019

Arabia Saudita. Il dramma dei Rohingya espulsi: "prima ci hanno sfruttati e poi cacciati"

Avvenire
Non c'è pace per i Rohingya, la cui condizione apolide li espone a rischi altissimi, dalla tratta all'espulsione, anche quando cercano di trovare sicurezza e ospitalità in Paesi di fede islamica.


Dei Rohingya, per decenni appena tollerati in Myanmar dove non hanno mai avuto diritto di cittadinanza e dove sono stati sottoposti a ondate persecutorie fino a quella forse definitiva, con caratteristiche di genocidio, iniziata a fine agosto 2017, pochi ormai restano nel Paese.

Altri due milioni vivono in altri Paesi. Un milione in Bangladesh, confinante con lo Stato birmano settentrionale del Rakhine, il resto in una ventina di Paesi tra cui India, Indonesia, Malaysia, Nepal, Pakistan, Tailandia.

Mezzo milione in Arabia Saudita, in maggioranza accolti durante la persecuzione dell'inizio degli anni Novanta, perlopiù integrati, in molti casi con la concessione della cittadinanza. Diversa è la sorte di quanti hanno tentato di raggiungere illegalmente dal 2012 il Regno saudita e che vivono nella clandestinità o rinchiusi in centri di detenzione per essere poi espulsi verso i Paesi di ultima provenienza o quelli di cui hanno un passaporto falso.

Sono 32mila quelli rinchiusi nel centro di Shumaisi, a Gedda, non solo Rohingya. Tra essi anche donne e bambini. La loro sorte - un "volto" dell'immensa tragedia dei Rohingya finora ignorata - è emersa in un servizio pubblicato il 6 gennaio dal sito d'informazione Middle East Eye, che ha anche reso disponibile il video girato da un Rohingya mentre era in corso la sua espulsione attraverso l'aeroporto di Gedda (il video è visionabile dal sito web di Avvenire).

Nella ripresa, mentre le immagini mostrano decine di Rohingya in fila, in attesa di imbarcarsi su un volo per il Bangladesh, una voce maschile dichiara che "l'Arabia Saudita è un Paese musulmano, ma non ha nessuna pietà". "Quando sei qui ti vogliono solo sfruttare per riempirsi le tasche - racconto l'uomo. Sono qui per farvi sapere che, dopo essere stato in un centro di detenzione saudita per cinque anni in condizioni terribili, ora mi vogliono rispedire in Bangladesh".

"Le nostre autorità e rappresentanti in Arabia Saudita non hanno fatto nulla per impedirlo", aggiunge un altro profugo, ripreso con le manette ai polsi. Gli espulsi sono stati rastrellati nella notte, senza preavviso. "Sto girando questo video in aeroporto", si sente ancora. "Dopo che nel 2012 siamo scampati ad un genocidio (...) oggi l'Arabia Saudita, un Paese musulmano, ci dice di tornarcene da dove siamo venuti".

Purtroppo, i Rohingya non hanno alcun luogo che possano definire come "casa", se non le aree del Myanmar da cui sono stati costretti a fuggire dalle operazioni dei militari e paramilitari sostenuti dalla popolazione buddhista locale. 

Il Bangladesh ha fornito un sostengo umanitario essenziale ma trova crescenti difficoltà nel garantire ai profughi il necessario in termini materiali e si sicurezza. Un accordo per il rimpatrio negoziato con il governo birmano resta al momento sospeso e le porte dell'accoglienza altrove sono praticamente chiuse. 

Non meraviglia quindi che all'arrivo nella capitale bengalese Dacca, tredici profughi siano stati arrestati con l'accusa di aver utilizzato documenti falsi per entrare in Arabia Saudita. Un modo forse per disincentivare altri a tentare la stessa strada.

Stefano Vecchia

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