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venerdì 25 gennaio 2019

Libia - migranti: «Noi, costretti ad imbarcarci dai miliziani con le armi» - Viaggio tra i centri illegali di migranti alla periferia di Tripoli in mano alle milizie

Corriere della Sera
Non volevano proprio partire le centinaia di migranti spinti di forza dalle milizie libiche e le bande di trafficanti sui gommoni della morte sabato, domenica e lunedì scorsi dalle spiagge comprese tra Misurata e Garabulli. Il mare era mosso, il vento troppo freddo: avrebbero preferito attendere condizioni meteo migliori. Ma le loro vite non contano nulla, sono ora più che mai vittime degli scontri politici e delle violente lotte di potere locali cresciute dopo il summit sulla Libia tenuto a Palermo lo scorso novembre.

«C’erano onde alte oltre un metro sin sulla spiaggia e al largo il vento teso increspava i cavalloni. La temperatura era gelida. Assurdo imbarcarci, sembrava un suicidio. Alle due della mattina di domenica 20 gennaio però quei criminali ci hanno costretti. Erano otto uomini con abiti civili e il mitra in mano. Minacciavano di uccidere chiunque si fosse opposto. Non che io non volessi partire per l’Italia. Però avrei preferito aspettare che il mare si calmasse e una temperatura meno rigida. Ma non hanno concesso alcuna possibilità. Mi avrebbero sparato», ci racconta Hamido Mussa, nigeriano 31enne, che al momento si trova nel centro di raccolta per migranti di Shouk al Khamis, a Khoms, sulla costa a metà strada tra Tripoli e Misurata.

Lui è relativamente «fortunato», visto che la famiglia dalla casa natale ha accettato di pagare i suoi carcerieri affinché ora sia detenuto in questo campo noto all’Onu e alle organizzazioni umanitarie internazionali. «Alla partenza eravamo 142, di cui una ventina di donne e 8 o 9 bambini, divisi in due grandi gommoni. In maggioranza in arrivo da Siria, Ghana, Eritrea e Yemen. Tanti sono morti poche ore dopo, a ucciderli è stata l’acqua ma soprattutto il gelo. Non so quanti siano sopravvissuti. Adesso siamo sparsi in vari campi», aggiunge.

Il suo calvario e quello degli altri fornisce un quadro fedele della situazione venutasi a creare in Libia con il crescere del dialogo tra il premier del governo unitario a Tripoli, Fayez Sarraj, e Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Su pressione europea, dopo Palermo, si vorrebbe infatti costruire un governo comprensivo in grado di rilanciare la pacificazione interna e il processo politico verso libere elezioni. Ma numerose milizie della Tripolitania, specie quelle legate alla forte «città-Stato» di Misurata, si oppongono all’inclusione di Haftar. Sarraj in risposta taglia loro i salari. Queste allora si finanziano con la «merce di scambio» più accessibile e a buon mercato: i migranti. A migliaia negli ultimi mesi sono stati incarcerati nei centri delle milizie e picchiati al fine di ottenere riscatti dalle famiglie nei Paesi di partenza. A quelli del Bangladesh vengono chiesti sino a 1.200 dollari a testa per la liberazione. Per un somalo o un sudanese il prezzo scende a 500.

Nel traffico sarebbero coinvolti anche importanti funzionari del ministero degli Interni a Tripoli. «Le milizie ribelli bloccano le barche della guardia costiera di città come Misurata e Garabulli. Intendono creare problemi tra Sarraj e i suoi partner europei, in particolare con l’Italia. E più migranti muoiono in mare più Sarraj appare debole, inaffidabile», ci spiega un noto ufficiale della guardia costiera di Khoms, che chiede l’anonimato. I migranti in partenza sono certamente diminuiti, ma le loro sofferenze in Libia appaiono peggiorate.

Lorenzo Cremonesi

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