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venerdì 9 settembre 2016

Muro di Calais: migranti sgraditi e inglesi prigionieri di se stessi

SIR
I muri delimitano, difendono, preservano. Ma, allo stesso modo, i muri chiudono, ingabbiano, dividono. Fanno sentire (relativamente) sicuri, ma di certo non accrescono le amicizie, non aiutano a coltivare relazioni, non costruiscono né alimentano le identità. Vale per una famiglia che si rintana dietro la porta di casa, “tra quattro mura”; vale per una nazione che erge barriere di cemento e filo spinato per evitare invasioni, vere o presunte.

Il muro che Londra vuole costruire lungo l’autostrada per Calais vorrebbe essere una risposta agli arrivi di migranti che, fuggiti da Africa o Medio Oriente, attraversano mari e terre con il mito dell’Europa del nord dove son convinti di trovare una civiltà ricca, accogliente, moderna, paladina di democrazia e diritti, che apre le braccia a chi scappa dalla morte. I fuggiaschi sbagliano, si illudono. D’altro canto i britannici, e non solo loro, non hanno affatto voglia di condividere la loro ricchezza, sicurezza e modernità con chi bussa alla porta di Calais o di Dover.
Così, dopo i contestati muri in Ungheria, Austria, Grecia, Bulgaria, dopo le chiusure in Croazia, Slovenia, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, ecco che una nuova trincea solca l’Europa.
La questione riguardante l’arrivo in massa di migranti e richiedenti asilo è davvero complessa e sostenere solamente posizioni di principio – accoglienza senza limiti oppure respingimenti senza eccezioni – non ha senso, non produce effetti efficaci, non risolve il problema. I numeri degli afflussi sono cresciuti in modo esponenziale e si consolida l’impressione che “bisogna fare qualcosa”. Occorrono regole condivise, pragmatismo, organizzazione, tanti soldi; il tutto unito a una certa dose di comprensione dei drammi che un’ampia parte di umanità sta vivendo in varie regioni del mondo oggi, anno 2016.
A nulla servono, come spiegano tutti gli esperti di geopolitica, sbarre, fili spinati, muri: l’umanità è in movimento e occorre che i Paesi di transito e destinatari dei flussi si rimbocchino le maniche. Non senza rinunciare a tutelare i propri cittadini, la sicurezza interna, il benessere costruito a fatica.
Servono poi interventi “a monte”, sul versante della cooperazione e politiche di sostengo allo sviluppo dei Paesi di origine delle migrazioni, per fare in modo che i popoli possano vivere dignitosamente, in pace e sicurezza, a “casa loro”. Non devono però mancare, sul versante europeo, una sana dose di responsabilità condivisa e un minimo di solidarietà, con le quali sarebbe possibile attutire l’onda d’urto dei profughi. 

L’Italia qui ha molto da insegnare, nonostante al suo interno risuonino voci contrarie al senso di umanità che ha sempre intessuto l’italianità.Resta, però, il muro di Calais. Per ora innalzato a barriera “contro” i migranti. E se domani ai confini inglesi venissero fermati anche polacchi e ungheresi, greci e spagnoli, italiani e tedeschi? E se, per converso, da questa parte del continente si ergessero barriere rivolte ai sudditi di sua maestà, alle merci Made in United Kingdom, ai servizi finanziari della City?

Nel 1989 l’Europa intera aveva inneggiato al crollo di ogni “cortina” che aveva fino allora diviso popoli e Stati e all’implosione di regimi fondati sulla paura e il sospetto. Oggi, a est e a ovest della vecchia Cortina di ferro, risorgono sentimenti di divisione e paura, assieme a nuovi egoismi politici e sociali. Ripensando al Muro di Berlino ci si domanda ancora chi fosse davvero prigioniero: i cittadini di Berlino ovest, scomodo avamposto delle società democratiche, oppure i tedeschi dell’est, comunisti al servizio di Mosca, che avevano eretto il recinto? E oggi, con la barriera a Calais, i reclusi saranno i migranti che si accalcano sulle rive della Manica assieme agli europei continentali, oppure i britannici, autoesclusisi dall’Unione europea e oggi rintanati nel loro – per ora splendido – isolazionismo?

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