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lunedì 22 luglio 2013

Storie di carcere, dall'amnistia (Epifani permettendo) alla "domanda di grazia"

Huffington Post
Frequentando il carcere, vedendo i detenuti da vicino, si imparano cose che generalmente non si ha occasione di imparare. Innanzitutto si scoprono umanità diverse e si vedono le persone e non il solito marchio come invece avviene per chi "conosce" i detenuti solo grazie alle foto segnaletiche e alle righe scritte dal cronista di turno. Ma più che le parole servono i fatti, ed ecco allora due piccole storie, scampoli di vite che si muovono tra sezioni, celle, rumori e pensieri.

La prima storia riguarda un uomo che si chiama Giuseppe Festinese che conosco ormai da anni, e che ho seguito nel suo peregrinare di carcere in carcere (Vasto, Avezzano, Sulmona, Teramo, Larino, Chieti). Con se stesso non vive bene, con gli altri ancora meno, per letto aveva una cassettone nei bassi di Napoli, di suo padre ha un solo e ultimo ricordo: il rumore di un colpo di pistola che l'ha lasciato steso in una pozza di sangue sotto casa.

Ora, da anni, Giuseppe la sua pace la trova - quando la testa non fa boom - nella scrittura, nei suoi testi che butta giù lettera dopo lettera rigorosamente a stampatello, senza punteggiatura. Escono musiche. Escono luci e colori come nella tela di un pittore. I quadri che compone sono pugni nello stomaco. Per chi ha voglia di sapere e non si accontenta, 
 ecco qui un file con un suo video messaggio, poi un vecchio testo che ho pubblicato anche su Voci di dentro dove si parla di sgabelli, lenzuola e una finestra e ancora un altro suo scritto di qualche giorno fa dove parla di un tale Mamadou, di piccoli orti da innaffiare e di colpe da pagare.

Con tanti altri testi Festinese ha partecipato a numerosi concorsi e ha vinto tanti premi. Vittorie personali in un mach con la vita. Colpito dal cancro, in un incontro con una donna vittima della stessa malattia ha detto:
"Tu sorridi dicendo che siamo fortunati ad essere guariti, io accenno un sorriso dicendo che ci è stato fatto un dispetto lasciandoci in questo mondo; tu cerchi di spiegarmi la tua esperienza raccontandomi che così ci è stata data una seconda possibilità, io ascolto ma non condivido, per me era preferibile andare via".
L'altra storia ha per protagonista un giovane che di nome fa Tarek. Nato in Tunisia, a 13 anni lasciò il suo paese nascosto sotto un camion dentro una nave: sei giorni di navigazione poca acqua, poco cibo e tanta incoscienza. Dopo essere passato per Marsiglia, fatto tappa a Padova, dopo aver lavorato come edile, fatto a botte con un connazionale, di mezzo c'è anche la droga, Tarek è stato arrestato nel 2008.

Storia uguale a quella di tanti altri che si trovano in carcere, ma questa ha una sua variante: Tarek non si è dato per vinto, il mondo della devianza l'ha sfiorato ma non inquinato: ha preso il diploma di terza media, ha seguito tutti i corsi che era possibile seguire e da alcuni è nel carcere del Chieti, dove appunto l'ho conosciuto e dove ho potuto osservare il suo percorso. Un buon percorso tanto che recentemente è stato ammesso all'articolo 21 (fuori di giorno per lavoro, dentro il pomeriggio e la sera) così da poter lavorare presso una cooperativa edile con un contratto di tirocinio formativo. "Ho trovato la mia strada", dice rabbuiandosi quasi subito e rivelandomi la sua angoscia: per colpa della Bossi-Fini non potrà rinnovare il permesso di soggiorno, e non avendo il permesso di soggiorno non potrà essere assunto: quando a breve terminerà di scontare la sua pena rischierà l'espulsione.

E pensare che alla Cooperativa dove lavora vorrebbero tenerlo con contratto a tempo indeterminato, perché bravo, volenteroso, capace. Spero che la stella che lo accompagna nella vita (Tarek in arabo è proprio il nome di una stella) gli porti fortuna. Nonostante le leggi sbagliate come quella sulla droga, quella sulla recidiva inventata da Cirielli, la Bossi-Fini.

Nonostante la realtà che tanti non vedono: il carcere non funziona, non ha mai funzionato. Una realtà ignorata anche da tanti esponenti del Pd, non ultimo Guglielmo Epifani che a proposito di amnistia, alla domanda di Massimo Giannini per Repubblica Tv, qualche giorno fa ha detto sicuro: "Non voteremo mai amnistia o indulto. No, no e no".

Come se amnistia, indulto e condono fossero degli istituti fuori dal mondo, dimenticando che invece sono previsti dalla nostra Costituzione e che oggi, e non ho alcun dubbio, servirebbero solo a fare giustizia, a portare fuori dal carcere alcune migliaia di persone dentro per piccoli reati, che sono a fine pena e per i quali un anno in più non cambierebbe nulla, anzi porterebbe un po' di legalità in un mondo, quello dentro il carcere, dove la legalità non è più di casa.

Qualche settimana fa ho letto "Domanda di grazia", romanzo-inchiesta che consiglio perché un bel libro e perché scritto da Gabriele Romagnoli che conosco e con il quale ho lavorato fianco a fianco in tante inchieste nel mio periodo come giornalista a Milano.

Nel libro si racconta la storia vera di Andrea Rossi, suo vecchio compagno di scuola, gigante dalla rigida morale che dava del "lei" alla compagna di doppio a tennis e diceva "cappero" come massimo turpiloquio, e che è stato condannato per omicidio di una anziana donna. Romagnoli racconta le sedute di primo grado e l'appello, segnala le incongruenze dei testimoni, scrive che l'amico non ha avuto un processo equo.
"Penso che la sua colpevolezza non sia stata provata oltre ogni dubbio...ma penso che la sua innocenza sia stata ancor meno dimostrata... anzi credo che la colpevolezza sia possibile". E conclude: "Il giorno in cui ho perso la fiducia in lui l'ho persa in chiunque. Per questo vorrei perdonarlo".

E per questo, arrivato al fondo della sua storia, Gabriele Romagnoli scrive: "Chiedere la grazia è l'ultimo atto che posso ancora compiere. Per farlo giuridicamente occorrerà un passo formale. Qui è di un'altra grazia che sto parlando...Nel silenzio di questa notte, senza rivolgermi a nient'altro che al principio della mia esistenza, chiedo la grazia, quella grazia. Non soltanto per Andrea Rossi. La chiedo per la nostra generazione... Per tutti. Anche per me".

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