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sabato 5 febbraio 2022

Libia - Da un telefonino nascosto la testimonianza delle attuali atrocità nel centro di detenzione di Ain Zara: «Non c’è spazio per dormire, mancano cibo e acqua. Viviamo nella paura»

Il Manifesto
Mediterraneo. Mahayadien è un rifugiato sudanese arrestato a Tripoli durante la protesta all’Unhcr. La sua testimonianza viene dalla prigione per migranti di Ain Zara, a Tripoli

Il centro di detenzione di Ain Zara

Mahayadien, nome di fantasia per proteggerne la vera identità, è un ragazzo di 24 anni nato in Darfur, nell’ovest del Sudan. Quando nel 2003 è scoppiata la guerra ha cercato riparo con la sua famiglia in Ciad. Aveva cinque anni e da allora è un rifugiato. Risponde al telefono dal centro di detenzione libico di Ain Zara, dove è recluso con centinaia di persone dal 10 gennaio scorso.

Com’è la situazione dentro?
La prigione non è grande e siamo in troppi. Nello stanzone dove mi trovo io siamo almeno 300. Viviamo uno sull’altro. Abbiamo difficoltà a dormire, non c’è spazio. Soffriamo per il cibo e l’acqua, che scarseggiano. Ci danno un pezzo di pane verso le 11 di mattina e poi un po’ di pasta, sempre e solo pasta, a pranzo e cena.

Come sono le guardie del centro?
Colpiscono i rifugiati senza motivo, con dei bastoni, soprattutto di notte. Ci fanno vivere nella paura. Qualche giorno fa ci hanno detto che saremmo potuti uscire. Alcune persone hanno provato a farlo. Ma poi ci hanno chiamato per dire che sono state rinchiuse in un altro centro, di cui non sanno il nome, dove la situazione è ancora peggiore. Sono costretti a lavorare tutto il giorno, ovviamente gratis.

Ci sono anche donne e bambini?
Sì, ma in un’altra parte della prigione. Siamo separati.

Come fa ad avere il cellulare?
A qualcuno è stato tolto, qualcun altro è riuscito a nasconderlo. Altri ancora si sono rifiutati di consegnarlo, hanno chiesto che gli fosse lasciato almeno quello.

Quando è stato arrestato?
Il 10 gennaio, davanti alla sede dell’Unhcr. Eravamo accampati là da ottobre per rivendicare i nostri diritti e perché dopo il raid di Gargaresh non avevamo più un posto dove andare. Quando sono arrivati i militari a sgomberarci ci hanno dato 10 minuti per prendere le nostre cose. Avevano pistole e bastoni. Un ragazzo è stato sparato [ferito non è morto, ndr], era proprio davanti a me.

Viveva nel quartiere di Gargaresh?
Sì, a Tripoli. Poi il primo ottobre è stato invaso dai militari. Sono stato arrestato e portato al centro di Al Mabani. Lì ho visto cose orribili. Persone uccise. Violenza continua. Dopo circa una settimana siamo riusciti a fuggire e siamo andati davanti all’Unhcr.

Quando è arrivato in Libia?
Nel 2020, dopo tanti anni da profugo in Ciad. All’arrivo avevo trovato un lavoro, so fare i conti. Ma qui la vita è difficile. Anche fuori dalle prigioni, per strada. Gli africani non sono considerati esseri umani.

Ha provato ad attraversare il mare?
No, ho troppa paura. È troppo pericoloso. Tante persone sono morte. E poi quando ci provi ti catturano e ti portano indietro, nei centri. Finisci nelle mani dei trafficanti.

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