Pagine

martedì 19 marzo 2019

Siria, una difficile pace dopo otto anni di guerra - di Andrea Riccardi

Corriere della Sera
Andrea Riccardi
La conferenza sulla ricostruzione conclusa il 14 marzo a Bruxelles non ha chiarito in quale situazione potrà fare ritorno una parte dei profughi.


Da otto anni si combatte in Siria. Tutto cominciò il 15 marzo 2011 con alcune manifestazioni nel clima della «primavera araba», che portò alla fine di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia. 


Bashar el-Assad, succeduto al padre nel 2000, aveva deluso con novità di facciata nella continuità del potere alauita. La primavera si risolse subito in un lungo inverno che tuttora dura e ha distrutto la Siria. Parlano le cifre: quasi mezzo milione di morti; sei milioni di rifugiati all’estero, molti in condizioni inumane (come nei campi libanesi); sei milioni e mezzo di sfollati interni; otto persone su dieci sotto il livello di povertà. Un patrimonio artistico unico danneggiato o distrutto: il millenario minareto della moschea degli Omayyadi atterrato ad Aleppo, città-patrimonio dell’umanità, bombardata e ferita dalla lotta per le strade. Ci sono bambini siriani che hanno conosciuto solo la guerra: almeno quattro milioni mai andati a scuola. Ricordo un disegno di un piccolo siriano, regalatomi in un campo in Libano: rappresentava una casa che brucia e gente che fugge. L’umanità siriana, vissuta in secoli di convivialità tra religioni e comunità, è stata ferita a morte. Domenico Quirico, rapito dai ribelli per cinque mesi nel 2013, ha raccontato dall’interno la disumanizzazione dei siriani: non ho mai visto un sorriso — ha detto — nemmeno sul volto di un bambino.

È il prezzo di una guerra senza fine. C’è chi ne vede l’origine nell’utopismo di quanti volevano la fine della dittatura e appoggiarono i ribelli: prima di tutto europei e americani. Altri accusano il cinismo di Assad, che ha bombardato il suo popolo. Come non concordare? La minoranza alauita, pronta a tutto, era nel panico e temeva di essere sommersa dalla maggioranza e dall’odio sunnita. Najah Alnukai, artista siriano rifugiato in Francia, ha disegnato l’inferno delle torture nelle carceri siriane, dove è stato detenuto dopo l’arresto per la partecipazione alle manifestazioni antiregime. Ricordo l’amarezza di Paolo Dall’Oglio, indomito gesuita disperso in Siria dal 2013 (di cui speriamo il ritorno), contro un regime che per lui doveva finire.

Otto anni di guerra non si spiegano però con un solo motivo o un responsabile. C’è stata un’incredibile concentrazione di cause e d’interessi contrastanti. Si sono incrociati tanti e diversi conflitti. La Siria è scoppiata e sono emersi i «demoni» del Medio Oriente. Lì si è vista la più vistosa espressione della frammentazione della comunità internazionale. La Russia di Putin ha resistito tenacemente alla minaccia di perdere il Paese, appoggiando Assad, anche se la sua strategia non sempre coincide con il presidente. Dall’autunno 2015 le forze russe sono scese al fianco del governo che, in quel momento, controllava meno del 30% del territorio e sembrava agli sgoccioli. L’Iran ha sempre appoggiato Damasco, temendo che la sua fine rompesse la continuità sciita da Teheran al Libano, passando per un Iraq instabile. Nel campo opposto non si possono seguire le crisi e le trasformazioni dei vari gruppi ribelli che, sebbene in perenne conflitto tra loro, sono giunti a contestare il controllo governativo delle città più importanti. La ribellione antigovernativa si è radicalizzata, anche per l’afflusso di combattenti d’ogni provenienza, appoggiata da numerosi Paesi arabi, tra cui i sauditi.

Sulla scena siriana, si è levato un minaccioso protagonista, Daesh,l’autoproclamato califfato di Al Baghdadi, che ha fatto saltare, con la frontiera Iraq-Siria, l’ordine imposto dopo la prima guerra mondiale e ha occupato la storica città di Palmira nel 2015. Daesh, a un certo punto, si è proiettato come minaccia globale all’Occidente. Nella coalizione anti-Daesh, sostenuta dagli americani, si sono affermati i curdi dello Ypg, che hanno creato una regione autonoma, Rojava, con l’appoggio americano: fatto insopportabile per Erdogan. Così, per la prima volta dal 1918, i turchi sono tornati in Siria e, dal 2016, controllano una terra che fu parte della Sublime Porta. Con nostalgia ottomana, hanno sempre presidiato, come extraterritoriale, la tomba d’un capostipite della dinastia Osman vicino a Aleppo.

Oggi i combattimenti si concentrano su quel che resta del Free Syrian Army attorno a Idlib e nelle sacche di resistenza di Daesh. Assad, cui gli Stati arabi cominciano a fare aperture, ormai controlla il 65% del Paese, mentre il resto è dei curdi (che dovranno negoziare, per quel che potranno, uno spazio nella Siria di domani) e, in parte minore, dei turchi e dei ribelli. L’esito finale è scontato, ma il Paese è in ginocchio. La conferenza sulla ricostruzione della Siria a Bruxelles, conclusa il 14 marzo, ha chiesto importanti risorse. Una parte dei profughi forse potrà tornare. In quale Siria? La nuova Siria non potrà essere la restaurazione di quella di otto anni fa. Troppi abissi aperti e troppo sangue versato. Si potranno conciliare le esigenze del potere (a suo modo vincitore) e della rappresentanza democratica? Sono risposte da trovare con l’aiuto della comunità internazionale che, però, è stata impotente e divisa negli otto anni passati. La guerra non è finita, né finirà senza serie premesse per la pace.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.