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martedì 12 marzo 2019

Umiliazioni, torture, lavori forzati. Come si vive in un carcere cinese

Tempi
Robert Rother, cittadino tedesco, ha passato sette anni e sette mesi nella prigione di Dongguan per reati finanziari. Uscito il 19 dicembre 2018 ha raccontato la sua terribile esperienza a Der Spiegel.


Umiliazioni, lavori forzati, torture. È quello che devono subire ogni giorno nelle prigioni cinesi i detenuti ed è quello che ha vissuto per sette anni e sette mesi Robert Rother. Il cittadino tedesco, che ha cominciato a giocare in Borsa a soli 13 anni e che si è trasferito a Shenzhen nel 2004 per fare affari in Cina, è stato recluso nel 2011 per reati finanziari e condannato a otto anni di carcere da trascorrere nella prigione di Dongguan. Uscito dal carcere il 19 dicembre 2018, la prima cosa che ha fatto appena ritornato ad Amburgo è stata telefonare a Der Spiegel: «Sono Robert Rother e aspetto di fare questa telefonata da sette anni».
L’interrogatorio e le minacce
Rother sostiene di essere innocente, di non avere mai derubato gli investitori che gli affidavano i loro capitali e di non avere provocato volontariamente perdite finanziarie per 21,3 milioni di dollari. La storia processuale però è la parte meno interessante delle vicende narrate dal broker. Il 20 maggio 2011, mentre si trovava nel suo bar preferito di Shenzhen, Lili Marleen, è stato portato via da due poliziotti e interrogato solo dopo 19 ore, durante le quali gli è stato impedito di dormire. Rinchiuso in una cella del centro di detenzione di Shenzhen numero 3, per mesi la polizia ha cercato di estorcergli una confessione, spiegandogli che altrimenti avrebbe potuto ricevere la pena di morte e millantando false testimonianze contro di lui mai raccolte.

Inginocchiarsi davanti alle guardie
Dopo la condanna, è stato portato nella prigione di Dongguan, dove il suo nome è stato tradotto in cinese (Luozi Luobote) ed è diventato il prigioniero numero 27614. Ogni volta che aveva bisogno di parlare a una guardia doveva stringere il pugno, alzare il braccio destro e dire: «Onorevole guardia, sono il prigioniero Luozi Luobote». Poi doveva inginocchiarsi ed esporre la sua richiesta.

Il primo mese lo ha passato in una cella destinata a 18 prigionieri, nella quale però dormivano in 40. Il bagno era semplicemente un buco nel pavimento, dal quale saliva giorno e notte il tanfo degli escrementi, che saturava l’aria afosa dell’estate. Per sua fortuna, soffriva di pressione alta e così gli hanno dato un letto da condividere con una sola persona.
«Nessuno vuole un morto europeo»
Le giornate di Rother passavano sempre uguali: sveglia alle 5,30 e una ciotola di riso e verdure per colazione. Poi, alle 6,50, i detenuti dovevano marciare in fila fino alla fabbrica che si trovava nell’edificio numero 6, all’interno del perimetro della prigione, per lavorare. Chi non seguiva il ritmo o camminava troppo lentamente veniva picchiato dalle guardie. Anche Rother ha preso la sua dose di calci, ma è accaduto raramente perché «gli europei vengono sempre trattati meglio degli altri. Nessuno in Cina vuole un morto europeo».
Nove ore di lavoro forzato al giorno
La giornata lavorativa cominciava alle 7 e terminava alle 18 con una breve pausa alle 12 per il pranzo. Alcuni detenuti assemblavano parti di macchine giapponesi, altri lavoravano ai lucchetti delle valigie Samsonite (anche se l’azienda ha negato di sfruttare il lavoro forzato nelle carceri cinesi). Rother si occupava di trasformatori: doveva avvolgere un cavo di rame di 2 metri a un anello di ferro. Dopo 61 giri, passava al pezzo successivo e avanti così per nove ore. Al termine della giornata, riceveva con gli altri detenuti una sessione di rieducazione sui valori del comunismo. Poi, dopo un’ora e mezza di tempo libero, le luci in cella si spegnevano.

Per ogni trasformatore Rother riceveva un punto. Come lavoratore di sesta categoria, doveva raggiungere 240 punti al giorno. Dopo tre mesi, essendo passato alla quinta categoria, doveva ottenere 288 punti. Ai lavoratori di primo livello era richiesto uno standard di 480 punti. Chi riusciva a rispettare i parametri riceveva alla fine del mese 20 yuan (2,60 euro) per comprare piccoli oggetti o generi alimentari. Le guardie punivano chi non raggiungeva i target vietando di guardare la televisione nel tempo libero o privandoli della telefonata mensile ai propri familiari. «Gli obiettivi vengono innalzati sempre di più finché diventa impossibile raggiungerli: ci spremevano come limoni», racconta Rother. «Tra di noi ci chiamavamo “automi”, spesso dovevamo lavorare anche la domenica».

Le torture
Chi cercava di ribellarsi o barava sui punti veniva punito e torturato. La tortura più comune era la “sedia di ferro”, che veniva posizionata all’ingresso della fabbrica. Il prigioniero veniva legato mani e piedi alla sedia in posizioni tali da perdere la sensibilità agli arti, che si gonfiavano a dismisura. La punizione poteva durare giorni o anche settimane.

Soprattutto chi violava le regole del carcere provando a suicidarsi veniva rinchiuso nella sezione 14 della prigione. Qui le guardie spruzzavano prima in aria dello spray al peperoncino, poi colpivano il detenuto con scariche elettriche al petto, alle gambe e al collo, lasciando che la sostanza urticante si posasse sulle ferite. Quando i detenuti venivano riportati nella loro cella, dovevano portare al collo un cartello con scritto: “Mi vergogno di ciò che ho fatto”. «Ricordo ancora le grida dei detenuti e il rumore delle scariche elettriche, che non dimenticherò mai», dichiara Rother.

La Cina ha firmato la Convenzione Onu contro la tortura ma non l’ha mai fatta rispettare. Secondo il detenuto tedesco, le telecamere venivano sempre spente quando le guardie dovevano pestare o torturare i carcerati. A 36 anni Rother è tornato a casa e vorrebbe riprendere il prima possibile il suo lavoro di una volta, anche se il suo sogno di fare soldi e di comprarsi una Ferrari entro i 25 anni (obiettivo che ha raggiunto a 26 anni poco prima di essere arrestato) è in parte svanito. Il prezzo che ha dovuto pagare per raggiungere quel sogno, infatti, è stato molto alto. «Devi mangiare la merda per sapere che sapore ha», è la sua ultima dichiarazione allo Spiegel.

Leone Grotti

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