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martedì 5 marzo 2019

L’illusione di “buttare la chiave” per sentirsi più sicuri - Recensione del libro: “Liberi dentro - Cambiare è possibile, anche in carcere”

Il Dubbio
Il carcere accoglie «un grande capitale umano sepolto, valorizzato male. Molti pensano che quel capitale ” non è umano” e che la soluzione sarebbe quella di “buttare la chiave”, così tutti sarebbero “più sicuri”. Un’allucinazione, un’illusione venduta bene» : queste le righe iniziali della sferzante e profonda introduzione che Mario Marazziti, già portavoce della Comunità di Sant’Egidio, fa a "Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere" di Ezio Savasta ( Infinito Edizioni, 2019, pagine 192, euro 14).

L’autore, grazie ai suoi 25 anni trascorsi per libera scelta in carcere quale volontario della Comunità, descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, cerca di smontare i luoghi comuni e lascia il lettore appassionarsi a vicende che paiono quasi incredibili. 
È sempre utile parlare di carcere, quel luogo invisibile agli occhi - perché separato da muri e recinzioni - e alla coscienza - perché, fin quando non ci tocca, coloro che vi soggiornano non sono altro che membri di una cantina sociale. Savasta, invece, scrive che «l’uomo recluso ritrova energie vitali nell’incontro con chi “viene dalla libertà”. Noi che visitiamo i detenuti possiamo promuovere un processo di riconciliazione, in quanto espressione di una società che non manifesta sentimenti ostili verso chi ha commesso errori, ma ha l’autorevolezza, la maturità e il coraggio di andare incontro a chi ha sbagliato. Non ci sentiamo orgogliosamente giusti, cerchiamo piuttosto di vivere quei sentimenti di partecipazione che papa Francesco ha espresso molto bene, incontrando i carcerati, nel Giubileo della Misericordia: “Perché loro e non io?”. È una domanda da farsi sempre». Scorrendo i dieci capitoli del libro ci si imbatte in tante storie, che neanche l’immaginazione può spesso produrre; come quella di un detenuto che è mancato ad un colloquio per un motivo surreale: «Mi ero lavato i vestiti – mi confessò –, gli unici che ho, e sono rimasto tutto il giorno, nudo, sotto le coperte, aspettando che si asciugassero». Oppure quella sui dolci, che non sono mai previsti nel vitto. «Chi non ha risorse – scrive Savasta - trascorre anche mesi senza poter assaggiare qualcosa di dolce. I primi tempi non capivo la festa che mi facevano i detenuti quando, durante i colloqui, offrivo loro cioccolatini, caramelle, biscotti».

E poi c’è Giulio, lo scrivano di Regina Coeli: «Gli altri detenuti lo chiamano familiarmente “zio”, lo rispettano e gli sono grati per il grande lavoro che svolge in loro favore. Passa il suo tempo a scrivere istanze agli avvocati e ai giudici per chi, per ristrettezze economiche, non ha un’adeguata difesa legale. È colto, è abile, è molto documentato e competente». E ancora Said, finito una seconda volta in carcere per sbaglio, e Petru, diacono della Chiesa ortodossa romena, in carcere con l’accusa, forse fatta per vendetta, di violenza sessuale nei confronti della moglie, che lo aveva tradito con un poliziotto. I destini di queste e altre persone si sono incrociati con quelli di Savasta, hanno percorso un cammino insieme, fatto di ostacoli ma anche di catarsi e riappropriazione della propria vita all’interno di una società accogliente e non respingente.

La speranza dell’autore è che al termine della lettura «quando passerete vicino alle mura di un carcere, sarete più consapevoli di quanta umanità è rinchiusa dietro quelle sbarre».

Valentina Stella

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