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sabato 21 novembre 2020

Arrestata in Turchia l’attivista anti-velo Nasibe Semsai, condannata a 12 anni, in fuga da Teheran. Rischia l'espulsione.

La Stampa
Questione di pochi metri e una manciata di minuti e Nasibe Semsai, architetta di 36 anni, avrebbe raggiunto il suo posto sull’aereo diretto in Spagna. Non ce l’ha fatta. L’attivista iraniana in fuga dalla Repubblica islamica è stata arrestata all’aeroporto di Istanbul dalle autorità turche mentre cercava di imbarcarsi. Aveva un passaporto falso, dicono ora da Ankara.

Nasibe Semsai è una delle attiviste della protesta del «Mercoledì bianco», bianco come lo hijab che le donne si tolgono e sventolano come una bandiera, una «blasfemia» in Iran, una sfida al regime degli Ayatollah e alle leggi islamiche che impongono alle donne di coprirsi sempre il capo e i capelli. 

Nasibe, condannata a 12 anni di carcere per aver partecipato alle proteste nel 2018 contro l’obbligo del velo, è chiusa in un centro per migranti irregolari a Edirne, vicino al confine con la Grecia. Ora l’attivista rischia l’espulsione verso il suo Paese d’origine. E in Iran rischia di uscire dal carcere alla soglia dei 50 anni, se non peggio.

L’arresto dell’architetta appassionata di montagna non è che l’ultimo esempio di come la Turchia vìoli le regole internazionali che prevedono di non deportare nel Paese d’origine le persone che rischiano di finire in prigione a causa delle proprie idee

Lo scorso 9 settembre Ankara aveva arrestato Maryam Shariatmadari, un’altra attivista del «Mercoledì bianco» che aveva cercato rifugio in Turchia. Ora anche lei rischia l’estradizione. E Nasibe Semsai non sarà l’ultima ad essere arrestata per aver sventolato uno hijab, o per aver semplicemente partecipato alle proteste. Anche a fine ottobre, in Iran, una giovane donna era stata arrestata per «aver insultato l’hijab islamico». Sui social era apparso un video - girato da qualcuno con un telefonino - che la mostrava in bicicletta senza velo e con un braccio alzato nel centro di Najafabad.

«La mia libertà nascosta»
Dal 2014 sono state decine le donne incarcerate, punite con frustrate e perseguitate per la «rivolta del velo», il movimento nato online da un’idea di Masih Alinejad, attivista di origine iraniana in esilio a New York. Tutto era iniziato con una pagina Facebook, «My Stealthy Freedom», dove le donne in Iran pubblicavano foto di se stesse senza hijab scattate di nascosto. La pagina raccolse oltre tremila immagini in pochi mesi, fotografie e video di donne che si liberavano dello hijab in pubblico e lasciavano «che il vento scompigli i nostri capelli». 

Ma dal 2017 qualcosa è cambiato, e le donne con un coraggio eccezionale hanno preso a manifestare apertamente in pubblico. Ha iniziato, il 27 dicembre 2017, la 31enne Vida Movahed, conosciuta anche come «La ragazza di Enghelab Street»: un video la mostrava in piedi, nel centro di Teheran, mentre sventolava silenziosamente il suo hijab bianco. Fu arrestata dopo un’ora. Nei giorni successivi altre 29 donne furono fermate per aver seguito l’esempio di Vida. Da allora non hanno mai smesso.

La rivoluzione islamica
Prima della rivoluzione islamica del 1979 molte donne iraniane indossavano abiti in stile occidentale, comprese minigonne e top sbracciati, ma tutto è cambiato quando il defunto Ayatollah Khomeini è salito al potere. 

La legge islamica oggi prevede che le donne che non indossano lo hijab possano essere incarcerate da dieci giorni a due mesi e fino a dieci anni se commettono «atti immorali e prostituzione». 

I reati previsti dagli articoli 638 e 639 del codice penale islamico sono appunto quelli che vengono contestati alle donne, poiché togliersi il velo in pubblico, simbolo della «modestia» femminile, equivale a sfidare la rispettabilità e il proprio ruolo nell’obbedienza. 

E Teheran non risparmia neanche gli avvocati che tentano di difenderle: Nasrin Sotoudeh, la famosa e pluripremiata avvocatessa iraniana 56enne, dovrà scontare la condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate. La pena più severa mai inflitta finora in Iran ad attivisti per i diritti umani.

Monica Perosino

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