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lunedì 10 marzo 2014

Benvenuti nella “cella liscia”. Ecco dove vengono torturati i detenuti nelle carceri italiane

TEMPI
Intervista ad Arianna Giunti, che ha raccolto in un libro le testimonianze inedite delle vittime di questa “tradizione” disumana. Ennesima stortura di un sistema penitenziario da terzo mondo


«È stato il padre di Carlo M., detenuto morto in carcere, a raccontarmi per primo della “cella liscia”, come è chiamata nel gergo carcerario. Per lavoro mi occupo spesso di carcere, ma fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare. L’uomo mi ha raccontato di questa forma di tortura, su cui solo oggi per fortuna si inizia a fare progressivamente luce». Arianna Giunti, giornalista freelance per il gruppo L’Espresso (premio Guido Vergani “cronista dell’anno” 2010), racconta a tempi.it com’è nato l’ebook-inchiesta La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane (edizioni Informant). Attraverso documenti e testimonianze dettagliate, Giunti è riuscita a ricostruire aspetti sconosciuti dell’ingiustizia che è diventato il sistema carcerario italiano, fatto di soprusi e violenze, oltre che di una generale indifferenza per il fallimento della funzione rieducativa della pena.

Cos’è la “cella liscia”?
Proprio in questi giorni è stata avviata un’inchiesta dalla procura di Napoli basata su circa 70 esposti di carcerati che denunciano l’esistenza di questa cella liscia o “cella zero”. Si chiama “liscia” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Stando alle testimonianze raccolte, il detenuto viene rinchiuso lì per punizione, a volte solo per alcune ore, in altri casi anche per una settimana. Viene lasciato per tutto il giorno da solo, abbandonato a se stesso. I testimoni all’unanimità riferiscono che una volta al giorno nella cella liscia si è sottoposti a pestaggio da parte degli agenti. Il detenuto Carlo Marchiori, finito in cella al Mammagialla di Viterbo per droga, prima di morire nel 2005 aveva raccontato al padre della cella liscia: «Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come se fossero una cosa bella».

Ci sono celle lisce in tutte le carceri italiane?
Solo negli istituti dove ci sono ancora le celle di isolamento: oltre al caso di Viterbo, ho raccolto testimonianze relative al Santa Maria Maggiore di Venezia, Le Sughere di Livorno, Marassi di Genova, Sollicciano di Firenze, la casa circondariale di Asti.

Però le segnalazioni citate nel libro e raccolte dall’osservatorio “Ristretti orizzonti” non hanno prodotto molte inchieste da parte della magistratura, e quando questo è avvenuto i processi si sono chiusi senza condanne. Come si è convinta che non si trattava di fantasie dei carcerati?
Quasi tutte le testimonianze che ho raccolto sono frutto di confidenze dei detenuti ai parenti, consegnate in alcuni casi prima di morire dietro le sbarre. Sottolineo che quelle che avvengono nelle celle lisce non sono torture che portano direttamente al decesso, non c’è un nesso causale dimostrato. Non sono pestaggi violenti, ma resta il fatto che sono abusi. Le testimonianze mi hanno convinta perché combaciano perfettamente tra loro pur provenendo da detenuti in carceri geograficamente distanti, che non erano in contatto tra loro. Inoltre le parole delle vittime non sono mai intese ad accusare la guardia di turno o altre persone in particolare, non sono dettate da sete di vendetta. E poi una sentenza che ha riconosciuto l’esistenza di questa forma di “tortura” c’è.

Di quale sentenza parla?
Parlo del caso di Claudio Renne e Andrea Cirino. I due erano detenuti nel carcere di Asti e i fatti che hanno raccontato alla magistratura sono avvenuti nel 2004. Come molti altri, però, temevano ritorsioni anche dopo la scarcerazione, quindi hanno sporto denuncia sulla cella liscia solo nel 2010, appoggiati dall’associazione Antigone. Nel libro ricostruisco le prove che hanno portato il tribunale a emettere nel dicembre 2012 una sentenza di condanna nei confronti di quella che i giudici hanno definito «la squadretta» di guardie: due dei quattro responsabili sono stati radiati dalla polizia penitenziaria un anno fa. Ma nel frattempo i reati erano caduti in prescrizione. Del resto erano reati lievi, visto che in Italia non esiste il crimine di “tortura”. L’indagine aperta adesso a Napoli invece promette qualcosa di più, perché in questo caso un garante dei detenuti ha raccolto per iscritto settanta testimonianze.

Nel libro affronta anche un aspetto meno drammatico ma ugualmente grave dell’emergenza carcere, la mancata funzione rieducativa della pena.
La funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti italiani sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi, tra i più alti d’Europa. Solo il 17,5 per cento degli oltre 67 mila detenuti in Italia lavora: sono 11.579 persone. A queste si aggiungono solo altri 2.266 fortunati, impiegati per altri datori. E se possibile, una volta fuori, i detenuti si trovano spesso davanti a prospettive ancora più cupe. Posso raccontare una storia emblematica?

Prego.
Mi ha colpita molto la vicenda di Sebastiano, 35 anni, ex detenuto a San Vittore, Milano, per piccoli reati di droga. In carcere Sebastiano era riuscito a disintossicarsi e aveva imparato a fare il giardiniere, sperando «che da quel momento non avrei più commesso cazzate». Una volta uscito di galera, però, si è ritrovato addosso un marchio indelebile. Quindici giorni dopo la scarcerazione ha trovato lavoro come pony express, ma a un certo punto ha iniziato improvvisamente a soffrire di crisi di panico: quando per strada sentiva le sirene delle volanti o vedeva un uomo in divisa, gli si annebbiava la vista e non riusciva più a muoversi. «Sette anni di carcere non passano indenni», mi ha raccontato. Avrebbe dovuto iniziare un percorso psicoterapeutico, ma non poteva permetterselo. Così lo hanno licenziato dicendogli: «Sappiamo dei suoi problemi passati, ma non possiamo permetterci persone problematiche». Nel mese successivo ha fatto un altro colloquio e lo ha superato. Ma quando si è presentato nella nuova azienda, si è visto sbattere la porta in faccia: «Ci spiace, deve esserci stato un errore, lei ha precedenti penali». Oggi, cinque anni dopo la scarcerazione, Sebastiano sta ancora provando a reinserirsi nel mercato del lavoro. Non ce l’ha ancora fatta. Nel libro racconto anche il caso di un uomo, Marcello, ingiustamente rinchiuso in prigione in via cautelare e poi scagionato dalle accuse: nemmeno l’assoluzione è servita a cancellare dal suo curriculum l’onta della detenzione.

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