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venerdì 1 marzo 2013

Italia - Paola Severino: la visita a Rebibbia con Papa Benedetto XVI e quella luce sul volto dei detenuti


Il Messaggero
Paola Severino
Ho avuto la fortuna di incontrare Papa Benedetto XVI all’inizio del mio mandato di Ministro della Giustizia e quell’incontro ha segnato profondamente il cammino che ho percorso nei mesi successivi e che continuerò a percorrere fino al termine del mio incarico.
Tutti coloro che erano a Rebibbia quel giorno di dicembre non potranno mai dimenticare le profonde sensazioni che hanno accompagnato quella visita, e tutti coloro che hanno seguito l’evento attraverso i media ancora mi chiedono: ma se ci siamo tanto commossi vedendo e ascoltando ciò che accadeva nella chiesa del carcere, cosa avete provato voi che eravate immersi in quella folla di persone sofferenti, ma al tempo stesso fiduciose?
Non è facile dare una risposta che non appaia retorica, ma credo sia doveroso farlo - proprio nel giorno della rinuncia - per sottolineare il profilo di un Papa che a molti è apparso più nella sua veste di teologo che in quella di Pastore di anime. Eravamo circondati da persone imputate o condannate per gravi delitti, ma non ce ne accorgevamo; eravamo insieme a delinquenti a volte pericolosi, ma non ci siamo mai sentiti in pericolo; eravamo tra persone semplici, ma che hanno saputo esprimere il loro dolore e le loro speranze con la maturità di chi ha costruito la propria cultura all’interno di una cella; eravamo con un Professore di teologia che ha saputo rispondere, senza alcuna regìa predisposta in anticipo, alle domande dei detenuti, con un linguaggio comprensibile a tutti e capace di dare sollievo ai tanti che gli chiedevano il perché di infinite sofferenze ed ingiustizie nel carcere e non solo.
Difficile trattenere una commozione ed un trasporto umano che ci legava con un vincolo profondo, che per me non si è più spezzato, a quell’umanità dolente. Impossibile non percepire in un Papa che spesso è stato considerato un freddo intellettuale, il calore di un uomo che ha ben presente la necessità e la capacità di tradurre il messaggio evangelico in messaggio alla gente comune. Difficile non comprendere che quegli uomini e quelle donne che la società ha dovuto allontanare e privare della libertà non aspettavano e non aspettano altro che un segnale, un cenno, una via per essere accolti nuovamente nella società, dopo aver espiato la pena. Evidente che in quell’incontro si tracciavano due strade diverse, ma parallele: quella dell’autorità religiosa, che porta il conforto della fede; quella dell’autorità laica, che porta il conforto della legalità. In entrambe, il forte convincimento che redenzione da una parte e risocializzazione dall’altra rappresentano l’unica strada per allontanare le possibilità di ricaduta nel reato e per ridurla a quelle percentuali minime che gli studi più recenti hanno evidenziato.
Più volte, dopo quell’incontro, ho pensato al singolare parallelismo tra ciò che ho visto in quel luogo fremente di emozioni e sentimenti e ciò che è raffigurato sulle pareti della fredda e rigorosa stanza di via Arenula, destinata ad ufficio del Ministro della Giustizia. L’incontro tra Stato e Chiesa che fu dipinto in occasione dei Patti Lateranensi, con i toni epici e celebrativi tipici di quell’epoca, comparato al nostro incontro nel carcere, che si sviluppava con i toni semplici e sinceri di chi sta parlando anche con il cuore. In entrambe le rappresentazioni, pur così diverse, si intravedeva però un percorso molto convergente, tra lo Stato che si prende cura dei bisogni del detenuto, cercando di rieducarlo, e la Chiesa che ne supporta lo spirito cercando di allontanarlo dalla strada del peccato. Non a caso, nel discorso del Papa, si è fatto più volte riferimento al nostro Governo e si sono fusi in un unico contesto concetti laici e religiosi, come quelli di “aiutare a ritrovare se stessi, nella riconciliazione con se stessi, con gli altri, con Dio, per rientrare di nuovo nella società e aiutare nei progresso della società”.
In questo contesto, non c’era spazio per interventi aulici o celebrativi. La scelta, da parte mia, di non pronunciare un discorso ufficiale, ma di leggere la lettera del “mio primo detenuto”, ritrovata in una tasca proprio nel giorno in cui mi accingevo a scrivere il testo, mi è sembrata così naturale ed è stata così profondamente compresa e condivisa, da farmi pensare che si trattasse dell’unica strada per comunicare in maniera diretta i sentimenti e le emozioni che accomunavano noi tutti.
Ancor più diretta ed inattesa, ila scelta di Benedetto XVI di rispondere alle domande dei detenuti con concetti semplici, comprensibili a tutti, ma non per questo meno profondi, meno meditati e meno ispirati a profondi valori teologici e filosofici. Quando un detenuto del Benin gli ha chiesto “perché nel mio Paese, tra i più poveri al mondo, nonostante la fede e la passione in Gesù le persone muoiono tra povertà e violenze? Forse Dio ascolta solo i ricchi e i potenti che non hanno fede?”, mi sono chiesta a mia volta “ma c’è una risposta adeguata ad una domanda così difficile?”. E la risposta è arrivata forte, chiara, convincente, dritta al cuore e alla mente, nonostante la sua complessità teologica: in un i paese sofferente come l’Africa “ho visto gioia e allegrezza più che nei Paesi ricchi come l’Europa, dove la massa delle cose che abbiamo sempre più ci allontana dal vero senso della vita”.
Oggi che questo Papa rinuncia al suo mandato, lasciandoci, come è stato scritto in un bellissimo editoriale, il ricordo di una “fragile grandezza”, mi scorrono davanti agli occhi i volti delle migliaia di detenuti che ho incontrato nei mesi successivi e la luce di speranza che compariva in tutti loro quando ricordavano la visita di Rebibbia. È per questo che proprio oggi, mentre si intensificano le polemiche e gli interrogativi sul senso della sua scelta, ho voluto ricordarlo per le sue grandi doti spirituali ed umane e per il grande conforto che ha dato ad una parte debole e sofferente dell’umanità.

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