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lunedì 6 gennaio 2014

Congo: viaggio alla fine del mondo, le carceri di Kinshasa

Il Fatto Quotidiano
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Le prigioni di Makala
È il carcere principale di Kinshasa, 6.400 detenuti divisi in pavillon, "padiglioni". All'ingresso, alle visitatrici, danno un quadratino di carta giallo "da non perdere, altrimenti non ti fanno uscire. E non dire che sei giornalista". 

Ci sono uomini, donne, minori, malati, detenuti politici. Una città nella città, labirinto di corridoi all'aperto tra visite dei parenti, mercatini interni e corruzione senza fine. I secondini sono alcuni condannati, i più fortunati: li chiamano governateur, hanno posizioni di potere all'interno del carcere, decidono gli "incarichi" degli altri prigionieri e li controllano. Un sistema repressivo talmente efficiente da garantire un ordine ineccepibile. 

Tanti detenuti non sono chiusi in cella. Non ce n'è bisogno. Stanno all'aperto, tra la polvere dei passaggi di terra battuta, nei cortili dentro le mura carcerarie, sotto il sole sempre opaco e pungente, avvolti dall'umidità. 

A tanti carcerati vengono affidati presunti ruoli di responsabilità. C'è chi è contabile, chi siede nella commissione disciplina incaricata di vigilare sulla condotta dei compagni di padiglione. Passiamo tra loro, siamo tre bianchi. Sorridono con soggezione, ci stringono la mano, ci fissano a lungo. Impossibile passare inosservati, passare e basta. Ci accompagna suor Anna, già infermiera in una prigione in Togo. "Spesso, la mattina, trovavo un morto in infermeria. La diagnosi non era mai morto di fame, non si poteva dire. Eppure era così".

Anche a Makala, come in tutto il Paese, mangiare non è scontato. Bisogna essere fortunati, conoscere le persone giuste dentro al carcere, avere soldi - anche per dormire su un materasso si paga. Altrimenti a terra, e sulla terra sporca e calpestata. Un pasto al giorno è un lusso. 

Lì dentro la religione è la sola distrazione, l'unica attività che abbia un senso. I carcerati, chi può e come può, autofinanziano la propria chiesa. Suor Anna ci sconsiglia di chiedere il motivo della condanna. "Solo se si prende confidenza si può domandare, altrimenti si offendono", spiega. In tanti non sanno nemmeno perché sono lì, aspettano di sapere il capo d'imputazione e sono in attesa di giudizio. Possono passare anni, spesso i dossier scompaiono. La burocrazia smarrisce le carte, i faldoni. A quel punto, bonne chance. Si è in balìa del destino, della fortuna e dei soldi. Chi può pagare 300 dollari al magistrato, magari, ha qualche possibilità. Tanti rimangono lì, sine die.

Incontriamo anche un uomo vestito da militare che, all'ombra, ascolta musica assordante - la sentiremo più o meno ad ogni angolo di strada. Ha lo sguardo fiero e la disinvoltura di un uomo libero. Gli stringiamo la mano. È Edi Kapend, il colonnello accusato di avere ordito il complotto contro Laurent Kabila, padre dell'attuale presidente, ucciso nel 2001. Kapend era suo cugino nonché responsabile della sua sicurezza. Quanto rimarrà dentro? "Di certo fino a che Kabila figlio sarà al mondo".

Dicono che le maman che controllano il padiglione femminile siano più severe degli uomini. All'ingresso alcune donne perquisiscono altre visitatrici. Allungano qualche centinaio di franchi e hanno il via libera, possono entrare. Il cortile nel padiglione delle donne è pieno di fango. Stanno lì, puliscono stancamente qualche pentola, un vestito. Si accovacciano senza lamentarsi nella polvere, tra i rifiuti, a fianco degli scoli a cielo aperto. Senza sapere neanche perché sono lì. 

Il momento più vivace della settimana è la messa. Ma, per partecipare, devono scrivere una lista coi nomi delle aspiranti da consegnare ai responsabili. Burocrazia su burocrazia solo per attraversare un cortile e pregare. C'è una signora anziana. La sua colpa, pare, è di avere dato ospitalità a tre minorenni che il giorno dopo avrebbero assaltato qualcuno con i machete. Di più, non sa. Non sa se e quando ci sarà il processo. Non ha soldi per pagare. Lei li aveva solo ospitati, senza chiedere nulla.

C'è anche il padiglione dei minorenni, hanno dai 13 ai 18 anni. Entriamo in una delle celle, anche quella non è chiusa a chiave. Sono circa in 40, tutti davanti alla tv, tutti a dire in coro "bonjour". Hanno passato gli ultimi cinque giorni senza acqua corrente, quello era il primo in cui potevano lavarsi. Anche qui, chi ha i soldi, ha un letto. Chi è senza, a terra. 

A Kinshasa ci sono oltre 40mila bambini di strada, spesso abbandonati dalle famiglie perché accusati di portare sfortuna, essere la causa di malattie o problemi in famiglia. Finiscono per strada, a imbottirsi di sedativi a basso costo per stordirsi. Abbandonati da tutti, vivono di accattonaggio. Alcuni di loro finiscono a Makala. Se l'inferno esiste, lo immagino così.

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di Eleonora Bianchini

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