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mercoledì 17 dicembre 2014

Tunisia: l'inferno delle carceri, mix esplosivo tra detenuti comuni e per fatti terroristici

Ansa
Se, come si dice, le prigioni sono la cartina di tornasole della civiltà di un popolo e di una nazione, è ancora lunga, ancorché difficile, la strada che la Tunisia deve percorrere per recuperare, in questo campo, il gap rispetto ad altri Paesi. E non è certo il grido d'allarme lanciato da Habib Rachdi, segretario generale del personale delle carceri tunisine, a fare di questo problema qualcosa di più grave rispetto alla realtà delle cose.

Al Mornaguia, che è il più grande reclusorio del Paese e che Rachdi definisce, crudamente, come una bomba ad orologeria, è solo una conferma di una situazione che viene denunciata da tempo ed alla quale i governi tunisini del post-Ben Ali non hanno saputo trovare soluzione. Certo non per cattiva volontà, ma, più pragmaticamente, perché nella scala di priorità le condizioni di vita dei detenuti non erano, ne sono certo in cima ai pensieri dei governanti.

Da quando il regime di Ben Ali è finito, si è tanto parlato di carceri e di come chi vi è recluso vive la quotidianità della sua condizione. Spesso le associazioni per la tutela dei diritti dell'Uomo (e quindi anche della popolazione carceraria) hanno fatto sentire la loro voce, ma con pochi risultati forse perché, in periodi di crisi, chi sta alla guida di un Paese ritiene di doversi preoccupare più di chi sta fuori che di chi sta dietro le sbarre.

Ma Al Mornaguia è un caso a sè non solo perché è il carcere più grande della Tunisia, quanto perché accoglie, in un mix che può diventare esplosivo, detenuti comuni che politici, con i secondi a fare proselitismo ed i primi che non aspettano altro che di trovare una loro via verso la "redenzione".

Sono ancora troppo poche le prigioni tunisine di recente costruzione e i piani di edilizia carceraria più volte annunciati non sono arrivati a concretizzazione. Così, detenuti per accuse lievi vengono a trovarsi accanto a quelli che sono gravati da pesanti addebiti, con una contiguità che spesso si traduce in una alleanza forzata perché altrimenti non si potrebbe fare.

Così che i "comuni" sono a rischio di diventare strumenti di detenuti per fatti di terrorismo che li minacciano per ottenere favori e facilitazioni. E tali minacce, sarebbero un complemento rispetto alla rete di complicità di cui i terroristi possono godere anche tra il personale carcerario e dai loro avvocati e che consentono loro di continuare a relazionarsi con i compagni liberi, con i quali concordano strategie ed azioni violente. Vere o esagerate che siano tali considerazioni, resta il fatto che le carceri erano e restano degli incubatori, pronti ad investire col loro deflagrare una democrazia ancora troppo fragile.

di Diego Minuti

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