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mercoledì 20 gennaio 2021

Fosse comuni, droga e tratta di migranti. La Libia ostaggio degli orrori delle tribù. di Domenico Quirico

La Stampa
La «banda dei sette fratelli» di Tarhuna sfilava per la città con i leoni. Dopo la ritirata di Haftar è fuggita lasciando centinaia di morti.


Guardo scorrere i filmati delle fosse comuni che da settimane vengono alla luce a Tarhuna in Libia. Viene in mente lo slogan scritto su una maglietta che vidi in Ruanda al tempo del genocidio: «Seppellire i morti, non la verità».

Gli uomini che scavano alla ricerca dei corpi sono rivestiti delle tute bianche che la pandemia ci ha reso abituali, quotidiane, il volto è coperto da maschere. Scavano buche superficiali. Gli assassini avevano fretta, i nemici stavano entrando in città, hanno ucciso e poi gettato su uomini, donne, anche bambini, poche palate di sabbia. 

Chi ha scoperto le prime fosse racconta che uscivano dalla sabbia lembi di vestiti, frammenti di arti. Ne hanno portate alla luce già una trentina, con 120 corpi. Ma le persone che risultano scomparse a Tarhuna sono 350. I parenti mostrano le foto, chiedono di vedere i vestiti, gli oggetti ritrovati nelle fosse, cercano una traccia, una prova, una smentita. Di molti non si è ancora scoperta l’identità. Gli innominati: coloro che vengono uccisi e sepolti anonimamente.

L’impressione più terribile l’offrono le sagome disegnate sulla sabbia dai vestiti, una uniforme, una lunga veste femminile, la tuta di un bimbo; sembrano ipotesi irrealizzate di esseri umani, la traccia lasciati da fantasmi che non potremo mai abbracciare. Palme derelitte presidiano il pietoso lavoro degli sterratori. Incombe il cielo di un azzurro così chiaro da sembrare irreale, metafisico. La forza dell’elemento distruttivo non si coniuga con la speranza o un progetto di un mondo nuovo: solo morte e guerra.

C’è chi sostiene che l’impatto estetico con il macabro come le tracce di un massacro emozioni ma non aiuti a capire il male. Forse ha ragione: a furia di guardare atrocità, le sue prove e testimonianze alla fine ci appaiono irreali, finiamo per abituarci e non ne ricaviamo alcun arricchimento morale.

I massacri sono tutti identici tra loro, Ruanda, Darfur, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia: i morti sono innocenti, gli assassini sono dei mostri, e la politica internazionale è complice o inesistente. Se non fosse per il mutare degli sfondi dietro le fosse comuni, la savana il deserto una città in rovina una foresta lussureggiante, sembrerebbe sempre la stessa storia: un gruppo che ha le armi massacra un gruppo che non le ha in un ennesimo ciclo di odio atavico. Più la Storia cambia e più le cose, queste cose, restano eguali. Il massacro è frutto di una violenza talora endemica talora episodica ma sempre in posti dove «ci si uccide reciprocamente». La universalità del male ci solleva quasi dalla necessità di riflettere su quell’episodio particolare. Queste fosse comuni emergono dal nulla e altrettanto velocemente tornano nel nulla. Il sangue si coagula, i cadaveri senza nome e i loro assassini, anche loro senza nome, divengono sfondo. E l’orrore, così, risulta qualcosa di assurdo.

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