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giovedì 31 dicembre 2015

Auguri di buon anno 2016 a tutti i lettori

Blog Diritti Umani - Human Rights

I bambini ci insegnano a guardare al futuro con speranza - Buon 2016
a tutti i lettori

Rifugiati alla frontiera Macedonia-Grecia

Migranti: Unhcr, oltre 1 milione arrivi in Europa nel 2015. Circa l'80% sono sbarcati in Grecia , il resto dalla Libia all'Italia. Morti e dispersi sono 3.735 di cui 700 bambini

ANSA
Roma - Oltre un milione di migranti sono arrivati in Europa via mare nel 2015: lo ha reso noto l'agenzia per i rifugiati dell'Onu (Unhcr): su 1.000.573 persone, più dell'80% sono sbarcati in Grecia, mentre gran parte degli altri - oltre 150mila persone - hanno attraversato il Mediterraneo dalla Libia all'Italia. 


Lo riporta la Bbc online. Il numero di migranti e rifugiati morti o dispersi nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l'Europa nel 2015 è salito a 3.735, aggiunge l'Unhcr.
La stragrande maggioranza delle persone che affrontano il pericoloso viaggio spesso a bordo di imbarcazioni non adatte alla navigazione necessitano di protezione internazionale e fuggono da guerre, violenze e persecuzioni nei loro Paesi di origine. 

Circa il 49% proviene infatti dalla Siria, il 21% dall'Afghanistan, l'8% dall'Iraq e il 4% dall'Eritrea.
La settimana scorsa, l'Unhcr e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni avevano annunciato che al 21 dicembre il numero di persone costrette alla fuga da guerre e conflitti giunto in Europa dall'inizio dell'anno aveva raggiunto il milione, con 972.500 persone circa che avevano attraversato il Mar Mediterraneo e 34.000 persone giunte via terra attraversando le frontiere terrestri fra Turchia e Bulgaria e Turchia e Grecia.

mercoledì 30 dicembre 2015

USA - 745 detenuti nei bracci della morte in California in bilico tra abolizione della pena di morte o velocizzazione delle esecuzioni

EuroNews
Sono 745 i detenuti che in California attendono di venire uccisi in esecuzione di una condanna penale. Dal 2006 è in atto una moratoria, in attesa che lo Stato decida la giusta combinazione dell’iniezione letale, e così l’opinione pubblica discute del tema: che fare di questi “dead men walking”?


Un portavoce della prigione spiega che nei bracci della morte in tutto lo Stato ci sono anche una ventina di donne. La sola Contea di Riverside, inoltre, ha pronunciato quest’anno il 16 per cento delle condanne a morte di tutto il paese.

Grazie ai giornalisti accolti eccezionalmente a San Quintino per una visita di ispezione, si registra anche il pensiero di un condannato a morte.

“Molti di noi aspettano anni ed anni un processo d’appello, tanto che nessuno vede questa prospettiva come una prospettiva realistica. E’ un pensiero astratto, che non si concretizza nella realtà. Da quando sono qui sono state eseguite solo due condanne, capisci cosa voglio dire, non è una pena questa…”
Nel prossimo autunno gli elettori della California voteranno per due referendum: il primo per l’abolizione della pena capitale, e il secondo per la velocizzazione delle procedure dei ricorsi in materia di esecuzione della pena di morte.

Gibuti: arrestato attivista per i diritti umani Ali Omar Ewado

Agenzia Nova
Gibuti - È stato arrestato nelle scorse ore a Gibuti l’attivista dei diritti umani Ali Omar Ewado, che di recente aveva pubblicato una lista delle vittime delle violenze scoppiate a Balbala il 21 dicembre scorso. 

Ali Omar Ewado
Lo riferisce l’emittente francese “Rfi”. L’uomo, militante della Lega di Gibuti per i diritti umani (Lddh) si era recato all’ospedale militare francese Bouffard per incontrare un giovane deputato dell’opposizione ricoverato nella struttura. 

In un comunicato, la Lddh ha “denunciato e condannat fermamente l’arresto illegale di Omar Ali Ewado e lanciato un appello solenne all’Unione africana, all’Unione europea e a tutti i partner della Repubblica di Gibuti perché facciano pressione sulle autorità al fine di porre fine alle violazioni dei diritti umani”.

La Germania assume 8.500 nuovi insegnanti per insegnare il tedesco ai bambini rifugiati

Fanpage
I nuovi docenti insegneranno il tedesco ai 196.000 richiedenti asilo in età scolare che entreranno nel sistema educativo quest'anno.
La Germania si attende una nuova ondata di arrivi per il 2016, per questo sta assumendo quest'anno 8.500 insegnanti in più per insegnare il tedesco ai bambini rifugiati. 


I dati sono stati raccolti dal giornale Die Welt, che cita un sondaggio condotto in sedici stati federali. I docenti saranno impiegati nelle 8.224 "classi speciali" create per aiutare i 196.000 richiedenti asilo in età scolare che enteranno nel sistema scolastico quest'anno a mettersi al pari con i coetanei. "Le scuole e le amministrazioni non sono mai stati di fronte a una simile sfida. Dobbiamo accettare il fatto che questa situazione eccezionale diventi la normalità", ha detto a Die Welt Brunilde Kurth, che si occupa dell'autorità sull'istruzione in Germania. L'ufficio stampa del ministero dell'Istruzione della Sassonia, Manja Kelch, ha detto alla CNN che si tratta di "una sfida immensa, ma siamo sicuri che riusciremo a far fronte all'afflusso dei rifugiati nelle scuole". In Sassonia sono stati assunti 300 nuovi insegnanti di lingua e altri 190 arriveranno entro febbraio 2016. "In totale ci sono ora circa 28.000 studenti nelle nostre scuole con una migrazione alle spalle", ha spiegato Kelch.

Quest'anno sono arrivati in Germania un totale di 325.000 bambini in età scolare provenienti da Siria, Afghanistan e paesi africani. Secondo Heinz Peter Meidinger, capo del sindacato degli insegnanti DPhV, il paese avrà bisogno fino a 20.000 nuovi docenti per colmare il divario in personale docente. Gap che potrebbe essere colmato già la prossima estate. Gli insegnanti chiamati per queste classi speciali, non si troveranno di fronte solo bambini che non conoscono il tedesco. Come ermerge da un articolo del Guardian, molti rifugiati hanno perso anni scolastici – basti pensare che 2,6 milioni di bambini siriani non vanno a scuola – e alcuni di loro non sanno scrivere nemmeno una lingua. Uno su cinque dei giovani rifugiati che arriva in Germania soffre di disturbi psichici post-traumatici causati da stress e almeno la metà ha vissuto un trauma significativo.

martedì 29 dicembre 2015

Antigone - Palermo suicidio e tentato suicidio al carcere Pagliarelli

Antigone
Il 22 dicembre u.s. all'interno del carcere Pagliarelli di Palermo si è suicidato un detenuto di 64 anni del reparto Laghi, un reparto a vigilanza dinamica.
Il giorno successivo, durante la visita all’interno del reparto che ospita le detenute del cardinale Lorefice - che ha portato loro una parola di conforto - si è consumato un tentativo di suicidio tramite impiccagione.

Carcere Pagliarelli - Palermo
“C’è un diffuso disagio nel carcere Pagliarelli, disagio da me avvertito anche durante la visita che ho effettuato nel mese di Ottobre. Scarsissima la presenza di psicologi, pochissime ore mensili a disposizione per centinaia di detenuti" dichiara Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia.
"Non si può “archiviare” tutto con estrema semplicità e disinvoltura. Chiediamo al Ministro Orlando di avviare una indagine su quanto accade in questo carcere, partendo dai fatti odierni e dal numero dei casi di detenuti in isolamento in questo anno”, conclude Apprendi.

Filipino Joselito Lidasan Zapanta murder convict executed in Saudi Arabia

AP
Manila - A Filipino murder convict was publicly beheaded in Saudi Arabia on Tuesday after failing to meet the demand of the Sudanese victim's family for payment of $1 million to save him from the death penalty, officials said.

Joselito Lidasan Zapanta's execution was carried out after his family and the Philippine government managed to raise only 23 million pesos ($488,000), said Philippine Department of Foreign Affairs spokesman Charles Jose.

The victim's family refused to sign an affidavit of forgiveness that would have spared Zapanta the death penalty unless it was paid 48 million pesos ($1 million), setting a two-week deadline earlier this month for payment, Jose said.

Zapanta, a 35-year-old tile-setter, was convicted of murder and robbery by a Riyadh court in 2010.

The Department of Foreign Affairs said in a statement that the government ``has undertaken and exhausted all diplomatic and legal efforts, and extended consular and legal assistance to preserve the life of Mr. Zapanta.''

The plight of Filipino workers overseas is a sensitive issue in the Philippines. About a tenth of the country's 100 million people work abroad, including around 2.2 million in Saudi Arabia.

Jose said that 79 Filipinos are on death row in various countries, including 41 in Malaysia and 27 in Saudi Arabia.

Chine: un ex-condamné à mort indemnisé après 11 ans en prison

AFP
Pékin - Un Chinois condamné à mort à trois reprises et qui a passé 11 ans en prison avant d'être acquitté a reçu un dédommagement de 1,27 million de yuans (178.000 euros), ont annoncé mardi les médias chinois.

Zeng Aiyun, ancien diplômé de l'Université de Xiangtan, dans la province du Hunan (centre), a été condamné à la peine capitale en 2004 pour le meurtre d'un camarade de classe.

Le verdict a depuis été annulé à trois reprises et de nouveaux procès ordonnés, mais lors des premiers, en 2005 et 2010, M. Zeng a de nouveau été condamné à mort.

La Cour populaire intermédiaire de Xiangtan l'a finalement disculpé pour manque de preuve lors d'un quatrième procès qui s'était tenu en juillet dernier.

Elle lui a accordé lundi une indemnisation de 1,27 million de yuans (178.000 euros), a annoncé l'agence de presse officielle Chine nouvelle.

Le tribunal a par ailleurs conclu qu'un autre étudiant était l'unique meurtrier. Chen Huazhang, déjà condamné à mort pour complicité, a empoisonné la victime par jalousie et a mis la justice sur une fausse piste afin d'impliquer M. Zeng, a précisé Chine nouvelle.

Zeng Aiyun a annoncé ne pas se contenter de l'indemnisation et vouloir demander davantage, a écrit mardi le journal Beijing Times.

L'affaire est emblématique des risques d'erreurs judiciaires en Chine, où les aveux forcés sont monnaie courante et les acquittements exceptionnels.

Les exécutions d'innocents ne sont par ailleurs pas rares dans le pays.

Fin 2014, un tribunal de Mongolie intérieure (nord) avait prononcé un retentissant acquittement post-mortem d'un adolescent exécuté à tort 18 ans auparavant.

Hugjiltu, un jeune homme d'ethnie mongole, avait été condamné en 1996 après avoir "avoué" le viol et le meurtre d'une ouvrière.

Son innocence avait été déclarée neuf ans après qu'un autre homme ait avoué le meurtre en 2005.

L'usage de la force pour obtenir des aveux reste très répandu dans le pays en dépit des engagements réguliers des autorités à y mettre fin et à faire respecter "l'autorité de la loi".

Mais les acquittements devant la justice, soumis au contrôle du Parti communiste chinois (PCC), sont plus qu'exceptionnels, les inculpés étant jugés coupables dans 99,94% des cas, selon des chiffres officiels.

Reporters senza frontiere: 110 giornalisti uccisi nel 2015, 2 su 3 non erano in zona di guerra

Il Tempo
Sono i numeri del dossier di Reporters senza frontiere che lancia l'allarme: "Necessario un rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu per proteggere i reporter".

Il bilancio di sangue pagato nel 2015 dai giornalisti è di 110 reporter uccisi, molti - a sorpresa ed in controtendenza rispetto agli anni passati - non in zone teatro di guerre ma in Paesi formalmente privi di conflitti. È quanto emerge dall'ultimo reporter dell'organizzazione "Reporters senza frontiere" (RSF). Dei 110 uccisi, 67 sono stati eliminati mentre stavano svolgendo il loro lavoro mentre 43 hanno perso la vita in circostanze avvolte dal mistero. Un dato ancora più preoccupante, quest'ultimo, perché elimina il discrimine tra il rischio assunto con consapevolezza che sconfina a tratti nell'eroismo dagli inviati di guerra, ad esempio, ed i semplici cronisti, cui non difetta il coraggio di seguire inchiesta scomode a casa, operando in Paesi non in guerra ma dove la criminalità teme la stampa.

Nella conta risulta anche la perdita di 27 cosiddetti "citizen-journalists" (reporter non professionisti ma non per questo meno agguerriti) e sette altri cameramen, fonici e tecnici, esposti agli stessi rischi dei reporter ma spesso senza gli stessi onori e senza il cui lavoro il giornalista da solo riuscirebbe a combinare ben poco. La minaccia principale viene dai cosiddetti "gruppi non statuali" come i jihadisti di Isis, che hanno perpetrato atrocità contro i reporter Nel 2014 due terzi dei giornalisti uccisi svolgevano il loro lavoro in zone di guerra. Nel 2015 è stato l'esatto opposto; "due terzi sono stati eliminati in Paesi in pace" Reporter senza Frontiere vuole che sia nominato "un rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu per proteggere i reporter". I Paesi più a rischio restano i soliti con alcun sorprese: Iraq (11 morti), Siria (10), terza e triste new entry la Francia con le 8 vittime, uccise nell'attacco al settimanale satirico Charlie Hebdo il 7 gennaio scorso, seguita dallo Yemen (10 morti) dove è in corso una guerra civile per procura tra sunniti sostenuti da Riad e ribelli sciiti Houthi appoggiati dall'Iran; Sud Sudan (7 vittime), India (9 morti), Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per chiunque, civili inclusi, dove i narcos controllano intere aree del Paese, (8 morti), Filippine (7) così come l'Honduras.

Rapiti e tenuti in ostaggio. Oltre al bilancio delle vittime pagato nel 2015 dai giornalisti (110) è altissimo il numero di reporter rapiti e tenuti in ostaggio (54) ed ancora più alto quello di quelli in prigione per aver svolto il loro lavoro: 154. È quanto emerge dall'ultimo reporter dell'organizzazione "Reporters senza frontiere" (RSF). Tra i 54 rapiti, 26 sono tenuti in ostaggio in Siria, 13 in Yemen, 10 in Iraq e 5 in Libia. Tra i ben 153 detenuti la non ambita palma spetta alla Cina (23 giornalisti in prigione), regime che prova ad aprirsi ma ancora condizionato dal pulsioni restrittive (da ultimo si veda la recentissima l'espulsione di un reporter del settimanale francese Nouvelle Observateur), seguita dall'Egitto (22), 18 in Iraq, 15 in Eritrea, 9 nella Turchia del neo-sultano dalle ambizioni ottomane, il presidente Recep Tayyip Erdogan che non tollera la libertà di stampa e l'ha dimostrato spesso facendo arrestate giornalisti e chiudere testate. Gli altri 69 collegi in carcere sono detenuti nel resto del mondo.

Confine UE Grecia-Macedonia. Rifugiati "selezionati", Somali e Yemeniti respinti

L'Espresso
Pagano per arrivare. E devono pagare pure per essere respinti indietro. Dopo dieci ore di viaggio. Senza pause o conforto. Ecco cosa sta accadendo al valico fra Grecia e Macedonia ogni giorno da più di due mesi. Sotto lo sguardo indifferente delle autorità. E i guadagni per i privati

I volontari continuano a ripetere: "assurdo", "surreale", "una follia". Non sanno come altrimenti descrivere quello che sta accadendo da due mesi a Idomeni, villaggio di confine fra Grecia e Macedonia, valico piano per superare la frontiera e iniziare la rotta verso la Germania, e per questo scelto da centinaia di migliaia di profughi sbarcati nelle isole egee dall'inizio dell'anno. Dal 18 novembre il governo macedone ha alzato qui una rete di filo spinato e militari, che filtrano "gli ingressi", come a uno stadio: solo coloro che arrivano da Siria, Afghanistan e Iraq possono passare. Solo loro hanno il biglietto giusto per iniziare la marcia verso Nord.
Gli altri, tutti gli altri, compresi somali o yemeniti (dove la guerra continua, nonostante sia stata dimenticata dai media ) non hanno alcun diritto riconosciuto, nemmeno quello di fermarsi e riposare. Sono subito rispediti indietro, ad Atene. Ricacciati sui bus privati con i quali sono arrivati, e che devono pagare pure per il rientro forzato. L'Europa? Osserva e accetta, tranquillamente, il caos di Idomeni.
[...] Uomini e donne stravolti, una coperta in testa, uno zaino che è tutto ciò che hanno della vita precedente, fermi diligentemente in coda per farsi "filtrare". Quindi i bus, con un video che mostra un autista che raccoglie i soldi del biglietto "di ritorno" con protervia. E parole fin troppo chiare: «Se non mi date i contanti vi faccio subito arrestare». La polizia osserva passiva. È tutto in regola, pare.
«È tutto surreale», dice invece Costance Theisen, operatrice di Medici senza Frontiere che si trova sul posto: «Prima i bus arrivava al piazzale, i migranti scendevano e potevano almeno riposare al campo allestito per l'accoglienza». Dopo le proteste di dicembre però, nelle quali alcuni profughi respinti (in quanto non siriani) erano arrivati a cucirsi le labbra in segno di protesta, il campo è stato chiuso.

«Adesso i bus vengono fermati sul percorso, in un posto di blocco a circa venti chilometri da qui», racconta Fani Galatsopoulou dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni: «E solo una vettura alla volta può parcheggiare a ridosso della frontiera. La procedura così è più veloce. In pochi scendono, si mettono in fila, mostrano i documenti - i controlli sono più rigidi - e attraversano il confine, se possono».
Gli altri vengono ricacciati sui bus. «Per arrivare da Atene a Idomeni questi pullman impiegano circa 10 ore. Poi vengono fermati, e spesso stanno in attesa anche per mezza giornata», denuncia Constance: «Appena scesi, se sono pakistani, iraniani, o di qualunque nazionalità che non rientri nelle tre accettate, sono rispediti indietro per un viaggio altrettanto lungo. Senza pause. Noi cerchiamo di offrire ora un po' di conforto, visite mediche minime e cibo alla stazione di servizio, ma è un caos».

Per il viaggio, i migranti pagano agli imprenditori privati che si sono buttati nel business di frontiera fra 10 e i 20 euro l'andata. Altrettanti per il rientro. Spendono 40, 35 euro a testa per essere trasportati avanti e indietro come pacchi. «Che ci sia un problema qui è evidente», ammette Fani. Bruxelles aveva promesso di risolvere tutto con i funzionari di Frontex. «Frontex? Li abbiamo aspettati per settimane», raccontano gli operatori sul campo: «Un giorno sono venuti due funzionari, hanno fatto una visita di qualche ora e poi via. Mai più visti o sentiti». Intanto i pullman continuano a raccattare disperati a Kavala, ad Atene, al Pireo, senza informarli del passaggio bloccato. E ancora adesso fra il 16 e il 30 per cento di quanti arrivano fino a Idomeni sono ricacciati indietro.

Dove? «Ad Atene l'unico riferimento istituzionale è il campo d'accoglienza allestito nello stadio», spiega Constance: «Dove però le condizioni umanitarie non sono buone e i posti limitati. Chi non entra semplicemente sparisce». Siriani, afghani e iracheni hanno infatti un permesso, dato allo sbarco, che è valido sei mesi. Per loro la strada verso l'Europa del Nord resta impervia ma possibile. Chi sopravvive ai naufragi nel piccolo braccio di mare fra Turchia e isole Egee può sperare.

Somali, iraniani, pakistani e yemeniti invece ricevono un documento che vale soltanto 30 giorni in Grecia. Possono fare richiesta d'asilo lì, certo, ma se non vogliono aspettare ad Atene il giudizio sul loro stato devono trovare autonomamente un modo per "scappare". Da clandestini. Anche perché non tutti possono fare richiesta di rientrare vista la situazione a casa loro: come un paradosso, la Somalia, ad esempio, non è considerata un "paese sicuro". I suoi abitanti quindi a rischio, non possono chiedere il rimpatrio volontario. E restano sospesi in un limbo. «Ora in molti si stanno avviando anche sulla tratta più impervia che passa dall'Albania, ma avranno gli stessi problemi: non li faranno entrare», spiega Galatsopoulou.

Le frontiere sono chiuse. E per alcuni ancora più chiuse che per altri. «Adesso agli illegali si è aggiunto un gruppo considerato ancora più illegale», racconta Theisen: «I migranti del Magreb. A loro non viene nemmeno dato il permesso di 30 giorni, quando arrivano. Per loro l'unica strada indicata è il rimpatrio. Oppure la detenzione immediata». Benvenuti in Europa.

lunedì 28 dicembre 2015

Burundi sull'orlo del baratro. Ora l'Unione Africana alza la voce in maniera decisa

Famiglia Cristiana
Il braccio di ferro, ora, è tutto africano. E forse la crisi burundese si appresta a una svolta. Dopo mesi di pressioni internazionali, che poco o nulla hanno sortito, ora è l'Unione Africana ad alzare la voce in maniera decisa. Ma il Burundi non ci sta

L'Unione Africana ha votato venerdì 18 dicembre l'invio di 5 mila soldati nel piccolo Paese che da mesi è scosso da una profonda crisi politica, istituzionale e umanitaria. Da quando lo scorso aprile il presidente Pierre Nkurunziza ha ufficializzato la sua candidatura per un terzo mandato incostituzionale, la situazione non ha fatto che deteriorarsi.

Nonostante le proteste di piazza della popolazione della capitale Bujumbura, nonostante le pressioni internazionali, le elezioni si sono svolte a luglio e hanno ovviamente confermato la rielezione di Nkurunziza, dopo che gli altri candidati si erano ritirati in segno di protesta.
Da allora, una parte del Paese non riconosce più il presidente come tale. E da allora, le proteste vengono sistematicamente soffocate nel sangue.

Braccio di ferro con l'Unione Africana
Dopo i tanti tentativi della Comunità internazionale, ora ci prova l'Unione Africana. Erano stati dati tre giorni di tempo per accettare o respingere la missione, che prenderebbe il nome di Maprobu e avrebbe il compito di proteggere i civili e prevenire ogni ulteriore deterioramento della situazione.

E lunedì 21 dicembre il parlamento burundese, con le due camere riunite in seduta straordinaria, ha respinto la missione e chiesto al proprio governo di difendere la sovranità nazionale. Lo stesso ha fatto il Consiglio nazionale di sicurezza.

Le pressioni internazionali 
L'Unione Africana aveva già dichiarato che, in caso di rifiuto, potrebbe far ricorso all'articolo 4 del suo Atto Costitutivo, secondo il quale la comunità dei Paesi membri può decidere anche contro la volontà del singolo Stato, in caso di circostanze gravi, come genocidio o crimini di guerra e contro l'umanità.

La situazione è dunque su un pericolosissimo crinale. Il Burundi ha dichiarato che riterrà qualunque invio di truppe un atto di aggressione e agirà di conseguenza.

La comunità internazionale nel frattempo non sta a guardare, anche se da mesi preferisce adottare misure che lascino un seppur esiguo margine a possibili trattative. L'ultimo atto in ordine di tempo viene direttamente da Barack Obama, che sempre lunedì 21 ha emesso un decreto presidenziale secondo il quale a partire dal 1 gennaio prossimo esclude il Burundi dall'African Growth and Opportunity Act.

Da più parti si fanno pressioni perché il Burundi venga anche sospeso dal Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu. È davvero un ossimoro che sia membro del Consiglio un Paese che i diritti umani li sta calpestando con una sfrontatezza raramente documentata altrove.

Rischio genocidio
Il 12 novembre era stato il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a pronunciarsi, con una perentoria richiesta di proteggere i diritti umani e di cooperare con i mediatori africani per riaprire immediatamente “un dialogo inclusivo e genuino inter-burundese”, con l'allusione a possibili future “misure addizionali contro tutti gli attori burundesi le cui azioni contribuiscano a perpetuare la violenza”, ma nessuna sanzione mirata.

Il pressing per una presa di posizione era cominciato dopo che, all'inizio di novembre, era trapelata sugli organi di stampa nazionali la registrazione di un incontro a porte chiuse, in cui il presidente del senato Révérien Ndikuriyo usava parole di fuoco contro gli avversari, con un linguaggio simile ai messaggi di odio che precedettero il genocidio rwandese del 1994. Da lì si è cominciato a parlare a più riprese di “rischio genocidio” per il Paese.

Di nuovo, il 19 dicembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha invocato una urgente accelerazione degli sforzi di mediazione da parte della East African Comunity e ha domandato ai governanti burundesi di cooperare pienamente con la missione di peacekeeping proposta dall'UA. Senza esito, come abbiamo visto.

Scontri a fuoco e repressione 
L'ultimo atto eclatante è stato lo scorso 18 dicembre, quando un assalto a quattro campi militari della capitale alle prime ore del mattino (da parte di un gruppo armato, pare di oppositori) ha causato una violenta controffensiva che ha lasciato sul terreno, a seconda delle fonti, dai 70 ai 200 morti, per la maggior parte civili.

Il tutto all'indomani dell'ennesima risoluzione del Parlamento Europeo, che chiedeva il congelamento di tutti gli aiuti non umanitari al governo burundese. “Circa la metà del budget del Burundi”, si leggeva nel comunicato del Parlamento europeo, “proviene dall'aiuto internazionale,con un contributo dell'UE di 432 milioni di euro per il periodo 2014-2020”.

Quotidiane sparizioni, uccisioni, rastrellamenti
La repressione iniziata la scorsa primavera, infatti, si è incattivita dopo le elezioni-farsa che hanno riconfermato Nkurunziza alla testa del Paese. Le opposizioni, le associazioni e la stampa libera (ormai quasi tutti rifugiati all'estero) documentano e denunciano quotidianamente rastrellamenti, uccisioni, esecuzioni extragiudiziali, spesso commessi da uomini in uniforme.

A essere colpiti sono per lo più uomini e giovani, a partire da chi si è segnalato per aver partecipato alle manifestazioni contro il terzo mandato, ma ormai gli arresti sono davvero arbitrari, chi capita capita.

Retate, punizioni collettive, prelievi forzosi che equivalgono a rapimenti veri e propri,anche se ad attuarli sono uomini in divisa. Tutto ciò è concentrato nella capitale Bujumbura e colpisce in particolare i quartieri contestatari in cui vive la minoranza tutsi, ma non solo loro. Il terrore è generalizzato. E a Bujumbura nel terrore ci si sveglia ogni mattina. Terrore per quello che può essere capitato nella notte, terrore per quello che può capitarti di giorno, dato che nessuno può più dirsi al sicuro. E terrore per gli orrori volutamente esibiti: chi viene prelevato dalle forze “dell'ordine” spesso sparisce. Ma altrettanto spesso viene ritrovato barbaramente ucciso il giorno dopo, il corpo gettato nelle strade, o nei fossati, spesso con segni di tortura, a volte col cranio sfondato o decapitato.

Un vero orrore esibito come monito, nelle strade in città, dove chiunque può passare e vedere. Un orrore esibito con una sfrontatezza che raramente si ricorda. All'estero, da Bruxelles a Ginevra a New York, si moltiplicano le riunioni e le misure restrittive. Ma il regime di Bujumbura pare infischiarsene, irridendo la comunità internazionale.

Vedremo se l'Unione Africana avrà buon gioco. Ma le riserve non mancano, dato che non sono pochi i presidenti (soprattutto nella regione dei Grandi Laghi e nell'Africa Centrale) che ignorano democrazia e alternanza e puntano a un terzo mandato incostituzionale, sulle orme di quel Nkurunziza che a parole tutti condannano.

USA: operazione del governo per deportare intere famiglie di migranti fuggite dalla violenza dell'America Centrale

La Repubblica
Il dipartimento per la Sicurezza nazionale Usa ha organizzato una serie di operazioni per deportate centinaia di famiglie che si sono riversate nel Paese dall'inizio del 2014. Lo riferisce il Washington Post. La campagna, che scatterà a gennaio, sarebbe il primo tentativo su vasta scala di deportare persone fuggite alla violenza scoppiata in America Centrale. Più di 100mila famiglie hanno attraversato il confine sudovest, anche se la migrazione è stata ampiamente messa in ombra da un aumento relativo di minori non accompagnati

L'operazione prenderebbe di mira solo gli adulti e i bambini a cui è già stato ordinato di lasciare il Paese da un giudice dell'immigrazione, secondo quanto riferisce un funzionario a conoscenza dei dettagli.

La campagna, che sarà condotta dal dipartimento d'Immigrazione e dogana, è ancora in fase di preparazione e in attesa dell'approvazione della Homeland Security. Gli adulti e i bambini saranno detenuti dove sarà possibile e immediatamente espulsi. Il numero mirato dovrebbe essere nell'ordine delle centinaia e forse maggiore.

Le deportazioni proposte sono stati argomenti controversi all'interno dell'amministrazione Obama e sui quali si è discusso per diversi mesi. Il segretario del dipartimento per la Sicurezza nazionale, Jeh Johnson, sta spingendo per portare avanti l'operazione, secondo quanto riferiscono fonti citate dal Wp, in parte a causa di un nuovo picco nel numero di immigrati illegali in Usa negli ultimi mesi. Le pressioni sono aumentata anche a causa della decisione della corte che ha ordinato al dipartimento di iniziare a lasciare andare le famiglie ospitate nei centri di detenzione.

Messa di Natale a Mazara del Vallo. In prima fila l'Imam a portare i saluti della comunità islamica

Vivi Mazara
Il giorno di Natale, i fedeli, che gremivano l’artistica chiesa di San Francesco, avevano notato in prima fila un musulmano che indossava gli abiti propri dei musulmani e si chiedevano il perché di quella presenza. L’Arcivescovo Vito Rallo, Nunzio Apostolico in Marocco, al termine dell’omelia, dopo aver rivolto gli auguri natalizi alla comunità cattolica, ha spiegato quella presenza, dicendo. “Oggi desideriamo ringraziare il Responsabile della Moschea di Mazara Vallo, Sig. Mohammed El Mriéh, che è venuto a presentarci gli auguri di buon Natale da parte della comunità musulmana mazarese.

Quando vivevo in Burkina Faso era del tutto normale che in occasione delle festività cattoliche i musulmani andassero a far visita ai cristiani e, viceversa, in occasione delle festività musulmane i cristiani rendessero visita ai musulmani.

Oggi, il nostro fratello Mohammed El Mriéh ci porta il saluto e gli auguri della comunità musulmana di Mazara del Vallo. Al contempo, desideriamo formulare i nostri migliori auguri alla comunità musulmana che, oggi, per una felice coincidenza di calendari, celebra la nascita del loro profeta Maometto. La sua presenza ci ricorda che non tutti i musulmani sono terroristi. I terroristi sono un gruppo di fanatici, che sono stati condannati dalle più alte autorità musulmane. L’Islam è una religione di pace e i musulmani desiderano vivere in pace e concordia con i fratelli cristiani. Insieme, testimoniando una religione di amore, pace e misericordia possiamo contribuire, praticando ognuno la propria fede, a costruire un mondo più fraterno e giusto.

Il nostro amico Mohammed El Mriéh è di origine marocchina, la sua presenza mi autorizza, pertanto, a far conoscere la lettera che il Ministro per gli Affari Islamici ha indirizzato all’Arcivescovo di Rabat. “Caro fratello nella fede, in occasione del nuovo anno, ho la gioia di augurare, a Voi e alla vostra comunità, e nell’espressione più condivisa, un gioioso natale e un felice anno nuovo. Per tutti coloro che credono nella speranza, la coincidenza, quest’anno, delle date delle due natività, la cristiana e la musulmana, e malgrado tanti avvenimenti tragici sulla terra, auspica un’era di migliore comprensione, di più umiltà e di riconoscimento giusto. Noi inauguriamo insieme giorni più lunghi di luce e sogniamo sempre una primavera dell’anima. Soltanto i negatori disperano della bontà divina”.

Cari amici, questo bel messaggio può essere fatto proprio anche da noi. Pertanto, auguro a tutti, cattolici e musulmani, buone feste alla luce della Bontà divina che nel Figlio suo ci mostra il suo amore per tutti gli uomini”.

I fedeli hanno manifestato il loro consenso al Messaggio del Ministro del Marocco e alle parole del Nunzio Apostolico augurando, con un forte applauso, buone feste alla comunità musulmana di Mazara del Vallo.

L’Arcivescovo Vito Rallo, Nunzio Apostolico in Marocco

domenica 27 dicembre 2015

En el Jubileo el Papa Francisco pide abolir la pena de muerte

Aleteia
Juan Pablo II dijo que era una pena "cruel e innecesaria" y Benedicto XVI innovó hablando de “justicia restituida”
El papa Francisco, en el mensaje de la XLIX Jornada Mundial de la Paz que se celebrará el próximo primero de enero, dijo en el contexto del Jubileo de la Misericordia: “deseo renovar el llamamiento a las autoridades estatales para abolir la pena de muerte allí donde está todavía en vigor, y considerar la posibilidad de una amnistía”.

El Papa justifica su petición hecha pública la semana pasada, para que “los Estados” durante el Año Santo cumplan “gestos concretos, actos de valentía para con las personas más frágiles de su sociedad, como los encarcelados, los emigrantes, los desempleados y los enfermos”.

Por lo que se refiere a los detenidos, aseguró que “en muchos casos es urgente que se adopten medidas concretas para mejorar las condiciones de vida en las cárceles, con una atención especial para quienes están detenidos en espera de juicio”.

Asimismo, el pontífice pide que haya una “finalidad reeducativa de la sanción penal y evaluando la posibilidad de introducir en las legislaciones nacionales penas alternativas a la prisión”.

La pena de muerte es una preocupación del papa Bergoglio, y está en una línea de continuidad con sus predecesores, san Juan Pablo II y Benedicto XVI.

Al respecto, apenas cinco días después de su discurso al Congreso de EEUU donde pidió la abolición de la pena capital en el país que más la práctica junto a China e Irán, y sin importar su apelo directo, en el Estado de Georgia, ejecutaron después de 70 años a Kelly Gissendaner.

Sin embargo, hay buenas noticias sobre el tema. “Desde los años 70, los países que no usan más la pena capital han aumentado en 7 veces, eran 20, hoy son más de 150”, dijo Mario Marazziti, autor del libro Desde Caín hasta el Califato, hacía un mundo sin pena de muerte, Life, presentado este martes 22 de diciembre en Roma a un grupo de periodistas.

El también portavoz de la Comunidad de San Egidio, inspirado en una visita al campo de concentración de Auschwitz en Polonia, contó algunos testimonios reales de personas condenadas a la pena capital que definió como “el arte de vivir cuando hay poca vida” esperando el momento de la inyección o la silla eléctrica.

Testimonio desde el brazo de la muerte
En un episodio muy humano, Marazziti contó sobre la carta de un condenado a muerte a un amigo en la distancia que decía así: “Te cuento la historia de la estrella marina -es noche casi alba- alguien camina hacia el ocaso en la línea del sol y ve que uno salta y luego se agacha”.

“Era un hombre- continuó- que recoge una estrella marina y la bota al mar. ¿por qué lo haces?, le pregunta el otro. ‘Porque si no, muere’. –’Pero si la playa tiene 160 metros de longitud. ¿Qué valor tiene? No puedes salvar todas las estrellas’… Ves amigo –escribe en su carta antes de morir- tú eres como ese que toma esa estrella marina y la bota al mar. Tu amistad me ha salvado la vida. No se puede salvar a todos. Pero tu amistad ha sido una salvación”.

Existe una continuidad en el discurso de los papas en defensa de la vida y en querer salvar a todos los condenados.

Benedicto XVI
Benedicto XVI, al final de la Segunda Asamblea Sinodal para África, del Sínodo de los Obispos que se llevó a cabo en octubre de 2009 en Roma, aprobó la “petición para la abolición de la pena de muerte”.

Al respecto, en la exhortación apostólica Africae Munus, el papa Ratzinger decía que los agentes de pastoral tienen la tarea de estudiar y proponer “la justicia restitutiva como un medio y un proceso para favorecer la reconciliación, la justicia, y la paz, así como la reinserción en las comunidades de las víctimas y de los delincuentes”.

Juan Pablo II
Juan Pablo II afrontó en diferentes ocasiones el tema. En 1998, pidió que se llegara a una moratoria internacional de las ejecuciones, precisamente, acogiendo la propuesta de la Comunidad de San Egidio y de otras voces de la Iglesia.

El papa Wojtyla en 2001, en el tradicional mensaje en ocasión de la Jornada Mundial de la Paz en enero, denunció lo que llamó una “trágica espiral de muerte” que incluye “homicidios, suicidios, abortos, eutanasia”, como también, el “encarcelamiento arbitrario, recurso absolutamente innecesario a la pena de muerte”.

El Papa polaco le dirigió el 3 de febrero de 2000 un mensaje al entonces presidente estadounidense Bill Clinton sobre el derecho y no le tembló la mano para llamar la atención sobre temas delicados como la pena de muerte, el aborto y la eutanasia.

Y defendió el derecho a que el reo pueda redimirse, porque la pena de muerte “quita definitivamente” esta posibilidad.

El año anterior en diciembre, Juan Pablo II había pedido un “consenso internacional para la abolición de la pena de muerte”, además porque hoy el Estado dispone de otros medios para reprimir eficazmente el crimen.

En el marco de su viaje a EEUU, el 27 de enero de 1999, en el estadio de St Louis, Missouri, ante un público de 100.000 personas, el Papa aseguró que “la pena de muerte es cruel y no es necesaria, y esto vale para los que han hecho mucho mal”. Así invitó a los católicos a comprometerse por la vida.

Y en México, en enero de 1999, en la basílica de Nuestra Señora de Guadalupe, Juan Pablo II le rezó a la patona de América por la vida y la protección de la misma “desde la concepción hasta la muerte natural”.

Luego pidió “nunca más terrorismo y narcotráfico, nunca más tortura y pena de muerte”.


Migranti, nel giorno di Natale salvate 751 persone nel Canale di Sicilia

La Repubblica
In sei distinte operazioni di navi militari coordinate dal centro operativo della Guardia Costiera. A Reggio Calabria arrivati in 371 con la nave Corsi. L'Arcivescovo ha ringraziato forze dell'ordine e volontari impegnati anche nel giorno di festa

Nel giorno di Natale sono stati salvati nel Canale di Sicilia 751 migranti in 6 diverse operazioni, coordinale dal centro operativo di Roma della Guardia Costiera. Si tratta di 5 gommoni e un barcone, con a bordo uomini, donne e bambini. In particolare, la nave Dattilo ha salvato 99 persone, la nave Zefiro 113 migranti, mentre le altre operazioni sono state compiute da un mezzo della marina militare tedesca, in ambito Eunavformed. Tutti i migranti sono in viaggio verso un porto italiano.

Sempre oggi è arrivata nel porto di Reggio Calabria la nave Corsi con a bordo altri 371 migranti, tra cui quattro donne incinte, una delle quali al settimo mese L'arcivescovo di Reggio Calabria Bova, mons. Giuseppe Fiorini Morosini, ha seguito alcune delle fasi di sbarco dei migranti e si è soffermato con i rappresentanti delle forze dell'ordine, i volontari e i religiosi che, anche nel giorno di Natale, si occupano delle operazioni accoglienza e di prima assistenza.

Mons. Morosini, nel messaggio di auguri per il Natale e anche nell'omelia per la messa celebrata in Cattedrale, ha invitato i fedeli a tenere vivo lo spirito dell'accoglienza e della solidarietà. "In questo Giubileo della misericordia, che ha trovato tanto consenso da parte di tutti gli uomini, anche tra i non credenti - ha detto - impariamo da Gesù come essere misericordiosi".

I migranti, soccorsi nello Stretto di Sicilia negli interventi degli ultimi giorni, provengono da Nigeria, Costa d'Avorio, Senegal, Sierra Leone Ghana, Congo Camerun e altri stati africani.

Une association de migrants dénonce la répression à Ceuta et Melilla

RFi Afrique
Plus de 300 migrants africains ont tenté de gagner l'Espagne par l'enclave de Ceuta à l'aube ce vendredi 25 décembre au matin, à la nage ou en escaladant la clôture frontalière au Maroc. Bilan : deux migrants sont morts et 120 ont été interceptés par les autorités.
Cette arrivée massive de migrants ne surprend pas le coordinateur du Conseil des migrants subsahariens du Maroc. Selon Camara Laye, ces migrants vivent dans des conditions très difficiles au Maroc. Et les conditions d'accueil à leur arrivée en Espagne ne sont pas meilleures.

« On ne peut même pas parler d’accueil, fustige Camara Laye. L’accueil, c’est quand il y a quelque chose de digne. Il n’y a plus de place dans les centres donc les conditions sanitaires ne sont pas appropriées. Tout individu aspire à de meilleures conditions de vie. Ceux qui sont là-bas c’est parce que la situation est difficile. »

Répression
Après des campagnes de répression féroce au cours des derniers mois dans l'enclave espagnole de Melilla, les migrants choisissent maintenant le nord du Maroc pour tenter d'entrer sur le sol européen, analyse le coordinateur du Conseil des migrants subsahariens du Maroc.

« Dans les villes du nord, à Tanger par exemple, il y a eu un ratissage vendredi : on prend les gens, on les refoule immédiatement vers le sud. Parce que l’objectif des forces de l’ordre marocaines, c’est d’éloigner le plus possible les migrants des frontières, explique-t-il. Pour nous, franchement, ce n’est pas la solution. C’est le reflet de la politique de l’Union européenne. C’est l’Union européenne qui met la pression sur le Maroc pour éloigner les migrants. Or, ce n’est pas la solution. »

Clôtures renforcées
Selon Camara Laye, l'ajout de clôtures surmontées de barbelés et le renforcement de la surveillance à Melilla ne règlent pas le problème. Ces mesures forcent simplement les migrants à changer de route vers Ceuta.

« Depuis le mois de février 2015, il y a eu un ratissage à Melilla. Principalement à Gourougou, où étaient réfugiés des centaines de migrants. Cette ville est actuellement occupée par les forces de l’ordre marocaines. Donc toutes les tentatives vers Melilla sont vouées à l’échec, souligne-t-il. Les grillages ont été renforcés. Le passage est quasiment impossible. C’est pourquoi les migrants se sont tournés maintenant vers Cassiago, dans la forêt où ils vont se jeter à l’eau comme on l’a vu [ce vendredi 25 décembre ndlr]. A chaque fois, on les prend, on les refoule, on les bastonne, ils sont blessés. »

Chaque année, des milliers de migrants risquent leur vie pour atteindre les enclaves de Ceuta et Melilla, les seules frontières terrestres de l'Union européenne avec l'Afrique. L'Espagne avait consolidé les clôtures frontalières des deux enclaves l'an dernier pour faire face à un afflux de migrants.

26 dicembre - Pranzo in carcere con 200 detenuti di Regina Coeli con Sant’Egidio

Corriere della Sera
Dopo il pranzo di Natale imbandito per seicento bisognosi nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, a Santo Stefano la Comunità di Sant’Egidio supera le sbarre del carcere per condividere le festività anche con i detenuti. Il 26 dicembre, infatti, i volontari hanno organizzato nel penitenziario di Regina Coeli un pranzo con duecento reclusi ."




Le condizioni di vita in carcere
Era il 26 dicembre del 1958 quando papa Giovanni XXIII (da poco eletto) varcò per la prima volta la soglia di Regina Coeli e incontrò i detenuti del carcere di via della Lungara. Lì fece uno storico discorso pieno di speranza e misericordia: «Sono venuto, mi avete veduto, ho messo i miei occhi nei vostri occhi e il cuor mio vicino ai vostri cuori». La comunità di Sant’Egidio ricorda quella storica visita con un pranzo nella rotonda del penitenziario insieme con i carcerati. Negli anni, la Comunità ha richiamato l’attenzione sulle condizioni di vita all’interno del penitenziario, dal problema del sovraffollamento ai suicidi.


http://roma.corriere.it/foto-gallery/cronaca/15_dicembre_26/pranzo-natale-detenuti-regina-coeli-2b8426a6-abe1-11e5-98e3-65fc73d21d7d.shtml
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Il Natale dei reclusi
Al pranzo di quest’anno parteciperà anche Mario Marazziti, portavoce della Comunità e presidente della Commissione Affari Sociali della Camera. «All’inizio del Giubileo della Misericordia - spiega - è un privilegio e una responsabilità per me poter vivere con chi è in carcere una festa radicata nei problemi, si, ma anche una occasione per immaginare con chi è recluso, il personale e i responsabili, come essere e cosa fare». Il pranzo non è l’unica iniziativa di Natale organizzata da Sant’Egidio nelle carceri. L’ultima domenica di avvento, il 20, si sono tenute messe a Rebibbia e Regina Coeli, sempre per stare vicino a chi vive ai margini della società 




«Situazione migliorata, ora pensare alla riabilitazione»
«Negli ultimi due anni abbiamo migliorato la vivibilità di condizioni carcerarie che erano diventate degradanti e disumane, controproducenti, per un sovraffollamento sanzionato anche dall’Europa. Adesso bisogna avere il coraggio di invertire con forza la tendenza per fare diventare il carcere un percorso di riabilitazione e non la parentesi tra una detenzione e l’altra» conclude Marazziti.

sabato 26 dicembre 2015

Un milione di migranti nel 2015 per un continente come l'Europa non sono un'invasione

Faro di Roma
L’anno che si sta per chiudere ha visto le nostre comunità confrontarsi con un nuovo ‘segno dei tempi’, una ‘nuova provocazione’: l’arrivo in Italia e in Europa di oltre 1 milione di persone migranti, che provengono da paesi segnati da guerre, disastri ambientali e persecuzione politica e religiosa. 

Sono persone in fuga: che hanno camminato in situazione di privazione, di violenza; che hanno attraversato il Nostro Mare su barche insicure, al punto che oltre 3700 hanno trovato la morte, tra cui almeno 730 bambini, anche neonati; che all’arrivo spesso hanno trovato non porte aperte, ma muri di filo spinato. 
Un milione di persone che arrivano in un Continente, come l’Europa, di oltre 500 milioni di persone; un milione di giovani, che arrivano in un Continente dove oltre il 30% sono anziani, non possono essere considerati un popolo che ‘invade’: è semmai un popolo in cammino, che chiede protezione internazionale, un diritto su cui si fonda la democrazia europea; è una risorsa per rinnovare l’Europa.
Durante la Prima Guerra Mondiale i profughi e i rifugiati in Europa furono oltre 12 milioni e ci fu una gara di solidarietà, anche nei nostri paesi e comunità, all’ospitalità e all’accoglienza. Certo, 1 milione di persone che arrivano non possono essere accolti solo da 5 dei 28 Stati Europei.

Il 2015 è stato l’anno in cui, purtroppo, abbiamo dovuto constatare la debolezza degli Stati che formano l’Unione europea a garantire non solo sulla carta, ma nei fatti, la protezione internazionale. L’Italia, da parte sua, impreparata fino al 2013 a tutelare un numero significativo di rifugiati (i posti negli Sprar erano solo 3.000, in pochi Comuni italiani) e ai richiedenti asilo (meno di 10.00 posti nei Cara), ha intrapreso il cammino di un sistema asilo degno di una grande Democrazia: i posti negli SPRAR sono diventati 20.000 (e nel prossimo anno dovrebbero arrivare a 30.000) e l’accoglienza straordinaria ha creato una rete di 100.000 posti in 4000 strutture.

Anche per l’Italia vale lo stesso discorso dell’Europa: l’accoglienza di 100.000 persone in 8.000 comuni italiani non può essere considerata un’invasione. L’accoglienza ha dovuto sconfiggere paure, anche nelle nostre comunità: la paura che nasceva dalla falsa correlazione tra terrorismo e islam, tra terrorismo e rifugiati. La rete diffusa di accoglienza che si è creata nelle nostre diocesi e parrocchie italiane, oltre 27.000 persone accolte, rispondendo anche all’appello del Papa, che il 6 settembre scorso aveva invitato le parrocchie d’Europa a fare spazio all’accoglienza di una famiglia di richiedenti asilo e rifugiati, è stata una risposta ecclesiale nel segno della carità e della giustizia, ma anche un gesto concreto per provocare una risposta politica organica e diffusa a chi chiedeva protezione internazionale al nostro Paese.

L’anno che si apre non può che essere all’insegna della pace e dell’accoglienza, continuando un cammino di accoglienza gioiosa nelle nostre comunità, secondo lo spirito del Vangelo vissuto nella Chiesa delle origini – come ricorda l’apologista Aristide di Atene (+140): “i cristiani se vedono uno straniero, lo conducono in casa e gioiscono con lui come con un fratello” (Apologia, 15,7) – . Un cammino di accoglienza rinnovato nel magistero del Concilio Vaticano II – “la Chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende di servire a Cristo” (L. G. 8) – che l’Anno giubilare voluto da Papa Francesco intende trasformare in gesti concreti e quotidiani di misericordia.

Gian Carlo Perego
Direttore generale Fondazione Migrantes

Arabia Saudita, 15 anni di prigione attivista per i diritti umani Waleed, avvocato del blogger Raif Badawi

Corriere Sociale
Roma – Waleed, 36 anni, avvocato e fondatore nel 2008 dell’organizzazione Osservatori dei diritti umani in Arabia Saudita, è stato condannato a 15 anni di prigione per il suo “attivismo pacifico”. 

Waleed Abu al-Khair
Da ultimo ha difeso Raif Badawi, fondatore del forum “Free Saudi Liberals”, un sito creato anch’esso nel 2008 per discutere del ruolo della religione nel Paese – che è sottoposto all’islam wahhabita, l’islam nella sua “versione” più rigorosa –. Raif, cognato di Waleed, è statocondannato il 7 maggio del 2014 dal tribunale di Gedda a 10 anni di carcere e a 1000 fustate in piazza con l’accusa di blasfemia nei confronti dell’islam, per aver esercitato il proprio diritto alla libertà d’espressione, tra l’altro criticando la muttawwi’a, la polizia religiosa che “pattuglia” le strade in Arabia Saudita – ragion per cui a Raif è stato recentemente conferito dal Parlamento europeo a Strasburgo il premio Sakharov per la libertà di pensiero, ritirato per lui dalla moglie Ensaf Haidar .

Il suo avvocato, nome completo Waleed Abu al-Khair, ha affrontato vessazioni e minacce. Le autorità saudite lo hanno giudicato colpevole di danneggiare la reputazione del regno, di insultare la magistratura e di altre accuse in base ad una cosiddetta “legge anti-terrorismo”.

In prigione, Waleed è stato picchiato e tenuto in isolamento. Soffre di diabete e non gli viene consentito di vedere regolarmente la moglie Samar, a sua volta attivista dei diritti umani, e la loro bambina.

Ma Waleed “non è un terrorista. E’ un prigioniero di coscienza e dovrebbe poter ricongiungersi con la sua famiglia”,spiega un appello di Amnesty International, che chiede una semplice firma per rivolgersi – o almeno provarci – al re dell’Arabia Saudita – la stessa che l’Onu ha scelto come presidente per il suo Consiglio dei Diritti Umani – perché il giovane venga immediatamente rilasciato.

Il sito di Amnesty ha anche ospitato una lettera di Samar Badawi, la quale spiega ai Sauditi che suo marito “è stato imprigionato perché voi possiate vivere liberi; ha affrontato i tiranni per rivendicare i vostri diritti; ha affrontato i suoi oppressori dicendo loro che non avrebbe tollerato la loro repressione. Ricordate che la storia non dimentica, esalterà coloro che hanno lottato per la libertà e metterà da parte la memoria di coloro che hanno ceduto ad una vita di umiliazione e schiavitù”.

Lo stesso auspicio di libertà è stato più volte lanciato da Amnesty International per Raif Badawi e gli altri attivisti condannati con lui: Suliaman al-Rashudi, Abdullah al-Hamid, Mohammed al-Qahtani, Abdulaziz al-Khodr, Mohammed al-Bajadi, Fowzan al-Harbi, Abdulrahman al-Hamid, Saleh al-Ashwan, Omar al-Sa’id e Fadhel al-Manasif.

Kurdistan turco: in 100mila lasciano le proprie case per cercare luoghi sicuri

Articolo 21
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Senza contare che un pezzo del paese – quello che una volta era il Kurdistan turco – è totalmente oscurato, come ho potuto verificare nella mia recente visita con Ivan Grozny. Qui, da quando Erdoğan ha interrotto i negoziati di pace col Pkk in vista delle elezioni di novembre, le città a maggioranza curda nel sud-est del paese sono sistematicamente sottoposte a coprifuoco. Lo Stato turco, con il dichiarato intento di colpire quelli che definisce “terroristi del Pkk”, impone a tutti gli abitanti di evacuare le città, di lasciare le proprie abitazioni. Annunci che assolvono le autorità turche da qualsiasi responsabilità nei confronti dei civili. Una volta dichiarato il coprifuoco, l’esercito turco e le forze speciali di polizia iniziano a bombardare i quartieri dall’alto e ad assaltate le abitazioni con blindati e mitragliatrici.

Da qualche tempo sono accompagnati dalle squadre di Esedullah, chiamati “Leoni di Allah”, gruppi paramilitari di estrema destra che si manifestano con le caratteristiche di una cellula Isis e “operano nei ranghi della polizia” secondo alcune testimonianze raccolte da Maurizio Molinari su La Stampa. La popolazione resiste, non vuole lasciare la propria terra, ma è terrorizzata. Le scuole sono chiuse, così come gli ospedali: ieri, a causa dei lacrimogeni, a 70 anni è morto Salih Baygin. E sono drammatiche le immagini di una donna disarmata trascinata da due militari per centinaia di metri e caricata su un furgone della polizia a Cizre; così come terribili sono i video, postati su twitter, in cui si vedono alcuni militari torturare un vecchio cane. Una violazione sistematica dei diritti umani, nel silenzio più totale. Secondo i dati dell’Associazione dei diritti umani IHD, nel corso del 2015 sono morte 523 persone negli scontri tra l’esercito e il Pkk: 171 militari, 195 militari curdi, 157 civili e 44 bambini. 

Da metà agosto le autorità hanno dichiarato 32 volte il coprifuoco in 8 distretti a Diyarbakir, 9 volte in 3 distretti a Mardin, 7 volte in 2 distretti a Sirnac, 4 volte in un distretto di Hakkari e Batman: questo significa stravolgere la vita di un milione e trecentomila persone. Sono drammatiche – e giornalisticamente assai poco raccontate – le immagini che arrivano in questi giorni dal Kurdistan turco: le file di anziani e famiglie che lasciano le loro città con enormi sacchi sulle spalle, contenenti la loro vita, per cercare luoghi sicuri. Sembra un esodo inevitabile e silenziato. Secondo Rete Kurdistan da agosto sono più di 100mila gli abitanti che hanno lasciato le proprie case. Senza contare che chi rimane si ritrova a vivere in città polverizzate da bombe e mitragliatrici, molto più simili ad Hassaké e a Kobane distrutte dall’Isis che a una civile città turca.

Chi ha provato a raccontare la situazione nel Kurdistan turco ha vissuto vari destini. Tahir Elci, avvocato curdo difensore dei diritti umani, è stato ammazzato in una sparatoria in mezzo alla strada a Diyarbakir, mentre durante una conferenza stampa chiedeva al Erdoğan di fermare le operazioni militari nelle città curde. Sono finiti in carcere con l’accusa di terrorismo due giornalisti britannici di Vice News – Jake Hanrahan e Philip Pendlebury – insieme alla loro guida – Mohamed Ismail Rasool – solo per aver ripreso gli scontri tra l’esercito turco e la resistenza curda all’interno del quartiere di Sur, Diyarbakir. Al giornalista di Ozgur Gun Tv che voleva documentare la violenza dei militari nei confronti dei civili nella città di Silvan un poliziotto ha puntato la pistola alla testa. Senza dimenticare la storia di Serena Shim, giornalista americana di origini libanesi, morta in uno strano incidente stradale, dopo essere tornata da Surc, città turca di fronte a Kobane. Aveva appena dichiarato in diretta a Press tv, testata iraniana per cui lavorava, di essere in possesso di immagini che documentavano un traffico illegale di estremisti islamici dalla Turchia alla Siria, accusando Erdoğan di chiudere gli occhi; aveva riportato, nella stessa diretta, alcune minacce ricevute da parte dei servizi segreti turchi. Poco dopo ha perso la vita in un frontale con un camion.

Nel resto del paese, si cerca di silenziare tutta la stampa che non fa da grancassa all’Akp, il partito che governa con la maggioranza assoluta e vede il presidente della Repubblica come massima espressione. Si cerca di mettere a tacere non solo l’opposizione, ma chiunque tenti di effettuare un minimo controllo critico, come ha fotografato la stessa Commissione Europea nel suo dossier reso pubblico soltanto dopo il voto. Nei confronti della stampa, le accuse non sono solo quelle di diffamazione, o di sostegno al terrorismo come accade in Kurdistan, ma anche di spionaggio. Per aver pubblicato un’inchiesta su un passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, con la scorta dei servizi segreti turchi, rischiano l’ergastolo, il direttore di “Cumhuriyet”, Can Dündar e il suo caporedattore Gül. È notizia di ieri che il pubblico ministero ha chiesto 5 anni e 4 mesi di carcere per Ergin, giornalista di Hürriyet che aveva osato criticare Erdoğan.
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venerdì 25 dicembre 2015

“I corridoi umanitari sono un’iniziativa straordinaria”. Intervista a Mario Marazziti

Riforma.it
«L’iniziativa ha un valore esemplare in quanto per la prima volta si realizza un’attività necessaria e atta ad affrontare in maniera civile, umana e intelligente il tema delle migrazioni mondiali. L’esodo dei profughi forzati che scappano dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle desertificazioni che stanno cambiando il mondo. Lo si fa introducendo un principio semplice: che si possono fare i viaggi sicuri» 

lo ha detto Mario Marazziti, deputato PI-CD e presidente della Commissione Affari sociali alla Camera e vicepresidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione dei migranti nei centri di identificazione e espulsione e nei centri di accoglienza per richiedenti asilo. Marazziti è anche portavoce della Comunità di Sant’Egidio: gli abbiamo rivolto alcune domande.

L’apertura dei corridoi umanitari dal Marocco e dal Libano e Etiopia – promossa dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio – è una buona pratica messa in essere da organizzazioni religiose. Qual è il suo parere in qualità di portavoce della Comunità di Sant’Egidio e di uomo delle istituzioni?
«I corridoi umanitari sono un’iniziativa straordinaria, una buona pratica, non solamente dal sapore simbolico ma dal valore concreto. Lo sano bene le famiglie e le persone fragili e vulnerabili che inizieranno nei prossimi giorni i primi viaggi verso una nuova vita. L’iniziativa ha un valore esemplare in quanto per la prima volta si realizza un’attività necessaria e atta ad affrontare in maniera civile, umana e intelligente il tema delle migrazioni mondiali. L’esodo dei profughi forzati che scappano dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle desertificazioni che stanno cambiando il mondo. Lo si fa introducendo un principio semplice: che si possono fare i viaggi sicuri. Togliendo dalle mani dei trafficanti il business della tratta di esseri umani e togliendo possibilità di controllo di questo traffico ai terroristi di Daesh, un modo per restituire all’Europa la possibilità di non contraddire sé stessa: i suoi valori più profondi e la sua stessa identità».

È una partenza o è il punto di arrivo di un lungo percorso culturale, solidale ed ecumenico?
«È un punto d’arrivo eccezionale che ha impegnato per più di un anno la Fcei e la Comunità di Sant’Egidio. È il frutto di quell’anima evangelica e buona del nostro mondo occidentale che, in maniera generosa e libera, riesce a pensare e realizzare quello che i governi, le regole e le strutture dei nostri Stati nazionali e democrazie in questo momento un po’ fragili, non sono riuscite neanche a immaginare».

Quando è nata l’idea dei corridoi insieme alla Fcei?
««All’indomani della tragedia che il 3 ottobre 2013 causò al largo di Lampedusa la morte straordinaria di troppi esseri umani. Ricordo che l’apertura di corridoi umanitari fu l’idea che spontaneamente sorse a chi assistette a tale dramma. Quando ci recammo con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e altri cinque deputati a Lampedusa all’indomani dei tragici fatti, proprio mentre venivano composte in quell’hangar le prime salme e venivano fatti i primi passi per dare un nome a quei 113 morti, tra i quali si contavano già i primi quattro bambini, facemmo la nostra prima preghiera e aiutammo i sopravvissuti eritrei a essere meno disperati dimostrando la nostra vicinanza e il nostro affetto, regalammo un po’ di sollievo in quei drammatici momenti. Scoprimmo però che quelle salme, le prime, che stavano giungendo a Lampedusa, erano solo una parte di una tragedia ben più grande che stava ancora aspettando di essere ritrovata in fondo al mare».

Che cosa si intende per corridoi umanitari?
«Il modo più adeguato per poter far giungere in Europa, o in quella parte del mondo in cui è possibile ancora vivere, le persone che sono in fuga da terre invivibili, facendolo in modo sicuro e grazie alla distribuzione di visti umanitari rilasciati in Marocco e in Libano ed Etiopia attraverso le ambasciate e gli uffici che la Fcei e Sant’Egidio hanno predisposto. I visti sono un modo per dare a queste persone la certezza di un viaggio dignitoso e privo di rischi, ma anche per dare loro, attraverso le nostre organizzazioni, un futuro di integrazione grazie agli accordi che le chiese, la società civile, le istituzioni hanno attivato per garantire loro un futuro concreto con possibilità lavorative e ricongiungimenti famigliari. Sono attive reti di solidarietà tra siriani e iracheni, ad esempio, che potrebbero accogliere i propri fratelli».

Come dovrebbero funzionare?
«L’attivazione dei primi tre corridoi umanitari, dal Marocco, dal Libano e dall’Etiopia – in un tempo in cui il terrore e la brutalità sono arrivati anche in Europa, facendo aumentare sensibilmente il numero di persone preoccupate per quanto sta accadendo nel mondo con la richiesta di maggior sicurezza – acquistano oggi un valore aggiunto, ossia, il fatto che vi è la possibilità di poter identificare le persone prima della loro partenza e dunque prima che esse giungano sul territorio europeo e individuando, altresì, le persone più fragili e vulnerabili fra i tanti profughi in partenza. Un modo per dare loro la dovuta priorità: famiglie con bambini fragili, malati o disabili, ad esempio. I tre uffici aperti dalla Fcei e sant’Egidio permettono di poter raccogliere queste storie di avviare in seguito il percorso di identificazione e predisporne l’arrivo in Italia grazie all’accordo fatto con i ministeri degli Esteri e dell’Interno, e quindi di poter far avere per un anno un permesso umanitario. Tutto ciò senza costi per lo Stato: un progetto sostenuto dai credenti che assegnano le risorse attraverso la destinazione delle quote Otto per mille all’Unione delle chiese metodiste e valdesi, grazie ai fondi stanziati da sant’Egidio e a quanto si raccoglierà attraverso le donazioni. Un nuovo modello di integrazione che definirei di “integrazione immediata”. Ciò che manca in tutto il sistema di accoglienza nazionale».

Ossia?
«I Cara, per non parlare dei Cie (centri di identificazione ed espulsione), gli Sprar, dunque i centri più piccoli sparsi sul territorio nazionale, sovente servono a far “buttare via” sei mesi, un anno, due anni di vita di queste persone ospitate. Un tempo che queste persone passano proprio nell’attesa di un documento di asilo, se accolto, o di eventuale ricorso, in caso di espulsione. Luoghi dove vengono fatti micro corsi di lingua, più spesso dove si pratica il nulla. Tutto questo tempo perso è un rischio in quanto crea marginalità, un tempo buttato anche per la crescita della nostra Europa, la crescita della nostra Italia. Il nostro Paese, lo sappiamo tutti, ha invece un enorme bisogno di nuovi italiani per via dell’invecchiamento della popolazione, per lo squilibrio nel pagamento delle pensioni, per la difficoltà di poter essere competitivi. La mancanza di generazioni giovani è la prima causa di questo malessere europeo e queste persone che arrivano nel nostro paese sono generazioni di giovani. Iniziare immediatamente un percorso di integrazione è uno dei modi per favorire il nostro sviluppo. Dunque i corridoi umanitari della Fcei e in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio hanno convinto il governo italiano, un prototipo e una buon esempio che potrebbero riproporre tutti i paesi europei, un progetto umanitario che ritengo essere di grande valore».

Fa riflettere il dato che solo grazie all’impegno delle chiese e della società civile si sia arrivati a convincere la politica e le istituzioni che questa fosse una buona pratica. Non poteva essere il contrario?
«In questa fase politica italiana ed europea c’è una grave debolezza delle democrazie occidentali. Una deriva populistica legata ai tanti anni di crisi economica e finanziaria, crisi in cui anche la ripresa che vi è stata è una ripresa senza lavoro e di una concezione diversa anche del poco lavoro esistente. L’Unione Europea, seppur frammentata, in questa nuova crisi è tuttavia l’antidoto a derive nazionaliste che portarono dopo la crisi del 1929 all’avvento del nazismo. Tuttavia persistono delle forti spinte populiste che indeboliscono tutti i parlamenti. Dunque è molto difficile poter prendere delle decisioni complesse e impopolari in un tempo in cui c’è chi sfrutta il disagio sociale creando capri espiatori. Lo sappiamo bene ed è sempre stato così, sono “quelli che vengono da fuori”, a essere la causa di ciò che non va bene da noi. In questo senso, a mio avviso, dalle chiese, dalla società civile, arriva quella libertà che è radicata proprio nella fede e nella coscienza di ognuno di noi».

Soffiare sul vento della paura, tra le liste antisemite pubblicate online e luoghi comuni su rom, sinti e immigrati è una vecchia litania populista?
«Ogni volta che si apre il coperchio delle paure e degli istinti peggiori non si sa mai dove si va a finire e l’antisemitismo ritrova sempre “fiato” e soprattutto ritrovano “fiato” gli stereotipi che vedono nell’altro, nel diverso da noi, il nemico. Questo è certamente ciò che vogliono diffondere gli estremisti radicali e gli assassini di Daesh, ad esempio. È difficile capire chi c’è dietro e chi redige le liste come quelle di Radio Islam, se sono islamisti radicali o chi, invece, decide di utilizzarne le sembianze per creare scontri tra correnti differenti interne per questioni di controllo e supremazia. Diciamo che su questi fatti, condannabili come indegni e inauditi, c’è purtroppo anche molta opacità. L’unica cosa chiara è che noi siamo chiamati a condannare ogni atto di antisemitismo e di dover aiutare l’Islam a resistere alla tentazione di sentirsi perseguitato da noi. Dunque, non regalare al cosiddetto Stato islamico l’idea che l’Occidente si stia coalizzando contro l’Islam. OggiDaesh è ancora una minoranza brutale che vuol far passare l’idea di essere il vendicatore dell’Islam. Un miliardo di musulmani nel mondo non solo non si riconoscono in questa organizzazione ma si sentono fortemente minacciati. Sta a noi non creare i presupposti per regalare a Daesh la forza di poter proseguire nel suo nefasto obiettivo. È necessario resistere alle tentazioni di odio e conflitto e alle semplificazioni, dobbiamo ricostruire le radici civili, umane e morali e valoriali della bellezza del nostro vivere insieme».

Oltre alla buona pratica di intervento c’è anche la buona pratica del dialogo ecumenico…
«Alla grande divisione delle guerre e dell’odio che fanno scappare molte persone dalle loro terre noi rispondiamo con l’unità. Le chiese cristiane hanno la capacità di riunirsi e di andare verso un punto comune in avanti e riconoscendosi come sorelle e fratelli, nel servizio ai poveri e nel recupero della dignità umana. Solo tornando a essere autentici cristiani, saremo in grado di cambiare il mondo».

Kenya, musulmani fanno da scudo ai cristiani sul bus. In fuga terroristi islamici di Al Shabaab

La Stampa
«Ammazzateci tutti musulmani e cristiani, oppure lasciateli andare». Con questo gesto di estremo coraggio e lucida follia un gruppo di kenioti musulmani ha evitato l’ennesima carneficina di civili cristiani ad opera del gruppo jihadista somalo Al Shabaab.
I miliziani somali Al Shabaab sono stati messi in
fuga dal gesto di coraggio dei passeggeri
La comitiva si trovava a bordo di un autobus nei pressi di El Wak, Nord del Kenya, a pochi chilometri dal confine con la Somalia, quando i guerriglieri hanno assaltato l’automezzo e hanno intimato ai passeggeri di scendere. Cristiani da una parte, musulmani dall’altra, in un rituale diventato ormai tragicamente comune in questa parte d’Africa. Inginocchiati, con un mitra alla nuca e ormai rassegnati alla morte, i kenioti cristiani, che stavano tornando a casa da Nairobi per celebrare il Natale, sono stati miracolosamente graziati dalla reazione inattesa dei connazionali musulmani, che si sono frapposti tra loro e i terroristi come scudi umani. Un gesto che ha messo in fuga i guerriglieri, basiti e frustrati da tanto coraggio. 

Durante l’assalto, in preda al panico, due kenioti, la cui confessione religiosa è ignota, hanno provato a scappare e sono stati uccisi. L’autista e altri due passeggeri sono stati feriti, ma non sembrano in pericolo di vita.

Una reazione estrema che dimostra come la popolazione del Nord del Kenya, prevalentemente musulmana e di origini somale, sia esausta dei ripetuti attacchi delle milizie jihadiste di Al Shabaab che stanno mettendo in fuga cristiani e non dall’arida e povera regione settentrionale del Paese.

Nel 2015, proprio a seguito di un’esecuzione a opera del gruppo fondamentalista islamico in cui erano stati divisi i cristiani dai musulmani, più di duemila persone tra maestri di scuola e operatori sanitari, anche occidentali, hanno deciso di abbandonare l’area per motivi di sicurezza. Un episodio identico, e con un finale ben più drammatico, si era verificato un anno fa, quando 36 cristiani kenioti, sempre a bordo di un pullman di ritorno per le festività natalizie, erano stati sequestrati dalle milizie somale. Non essendo in grado di recitare i versetti del Corano furono trucidati sul posto. È di otto mesi fa il dramma del campus dell’Università di Garissa: terroristi somali uccidero 147 ragazzi «colpevoli» di professare una fede differente da quella dei jihadisti.

Secondo i servizi di intelligence kenioti, nelle ultime tre settimane almeno 200 terroristi sarebbero entrati nel Paese. Un ulteriore incentivo al progetto del Presidente Kenyatta di realizzare un muro lungo tutto il confine tra Kenya e Somalia per provare ad arginare la minaccia terroristica.

giovedì 24 dicembre 2015

Migranti. In Italia da nord a sud, il 2015 è l’anno dell’accoglienza dal basso. Numerose le iniziative spontanee

Redattore Sociale
Mai come quest’anno si è creata una straordinaria mobilitazione civica in favore di migranti e richiedenti asilo. Tante le iniziative spontanee partite dai cittadini, come al centro Baoabab di Roma, al binario1 di Bolzano fino alla piattaforma Refugees Welcome. Ancora emergenziale la risposta delle istituzioni

Accolgienza al Centro Boabab - Roma
Roma - L’ultimo progetto approdato in Italia è il sito Refugees Welcome, una piattaforma nata in Germania nel 2014, per mettere in contatto i rifugiati con i cittadini che vogliono ospitarli in casa propria. L’obiettivo, come spiegano i promotori, è quello di favorire l’integrazione tra i profughi che arrivano nel nostro paese e gli italiani, attraverso un modello di accoglienza diffusa. Il progetto, che si è rivelato già promettente in altri stati europei (solo in Germania nel primo anno sono stati messi in piedi 231 “abbinamenti”, in Austria, Polonia, Grecia e Spagna il totale è di altri 240 abbinamenti) è l’ultimo di una serie di iniziative dal basso che hanno visto sempre più persone comuni, da Nord a Sud, mobilitarsi in favore dei migranti e dei richiedenti asilo. Il 2015, infatti, è stato per l’Italia l’anno dell’accoglienza dal basso. Mai prima d’ora si era vista una straordinaria mobilitazione civica in favore dei migranti. In molti casi, come anche nel resto d’Europa, le iniziative lanciate quasi per caso dai cittadini hanno permesso di fronteggiare situazioni emergenziali nei territori. E di ovviare alle lacune delle istituzioni che ancora quest’anno, nonostante un calo degli arrivi, hanno messo in piedi un sistema di accoglienza per larga parte “emergenziale”.

Una delle esperienze più importanti di accoglienza dal basso è nata Roma, a pochi passi dalla stazione Tiburtina. Qui un gruppo di cittadini volontari per tutta l’estate ha fornito assistenza a circa 35mila migranti transitanti, con il solo supporto per la parte sanitaria e legale, delle associazioni. Al centro Baobab ( una struttura che prima di allora era salita agli onori della cronaca per la foto simbolo di Mafia capitale) si è sviluppato così un modello del tutto nuovo, che ha dimostrato in pochi mesi l’efficienza e il senso pratico delle persone comuni nell’affrontare i fenomeni complessi: come quello dei migranti transitanti, quei profughi cioè che vedono nell’Italia solo un paese di transito, perché vogliono raggiungere il Nord Europa. All’opposto è emersa, invece, l’inadeguatezza delle istituzioni, che negli stessi mesi hanno promesso, senza trovarne, soluzioni alternative. Oggi il centro Baobab è chiuso, ma i volontari sono riusciti ad aprire un tavolo con il Commissario straordinario di Roma, Francesco Paolo Tronca, per portare avanti l’esperienza dei cittadini anche in un’altra struttura, magari più grande e adeguata, per venire incontro alle esigenze di assistenza ai profughi che continuano ad arrivare a Roma. L’esempio potrebbe essere quello di Milano, dove già dallo scorso anno i cittadini si sono messi al lavoro spontaneamente per accogliere i tanti profughi che passano dalla stazione centrale. L’esperienza è continuata, rafforzandosi, anche nel 2015. Questa volta, però, con l’aiuto del Comune che ha coordinato il lavoro dei volontari insieme ad associazioni e cooperative sociali.

Anche a Bolzano, al binario 1, la solidarietà è sorta spontaneamente. Qui uomini e donne provenienti anche da Innsbruck o dalla Val Venosta, si sono uniti ai cittadini per rendere umani i binari della stazione alto-atesina. “I treni da Roma carichi di migranti arrivavano sul binario 3 – racconta Eliana, una delle volontarie -. Abbiamo fatto domanda per avere uno spazio a nostra disposizione: ce ne è stato dato uno sul primo binario, a fianco dell’associazione Volontarius che si occupa di questi temi”. Sempre su uno dei luoghi di frontiera si inserisce anche l’esperienza del collettivo “No borders Ventimiglia”. Un presidio permanente che ha preso il via l’11 giugno, quando un gruppo di migranti, per resistere allo sgombero da parte delle forze dell’ordine, che gli impedivano l’accesso in Francia, aveva trovato rifugio sugli scogli della città, dando vita a una protesta. Da allora reti di solidarietà si sono mosse dai territori limitrofi organizzandosi per costruire un laboratorio permanente di convivenza e integrazione.

Tra gli ultimi progetti, nato proprio in questi settimane, c’è il dormitorio autogestito del centro sociale occupato Labàs di via Orfeo, a Bologna. Qui sono circa un centinaio i volontari che hanno partecipato al progetto “Accoglienza degna”, con cui il collettivo Labàs e il Tpo (Teatro polivalente occupato) hanno deciso di affrontare l’emergenza abitativa nella città. Tramite donazioni e raccolta fondi in un mese hanno realizzato un dormitorio autogestito e il servizio di accoglienza “Refugees welcome point”, dove i migranti che transitano dalla città possono trovare ristoro, pernottare per qualche giorno, utilizzare i servizi sanitari e ricevere un pasto caldo.

Queste iniziative, insieme a molti altri piccoli progetti lanciati spontaneamente in questi mesi, tracciano la mappa di un nuovo approccio civico e solidaristico al fenomeno migratorio, diventato centrale nel 2015, dopo che con le immagini provenienti dai Balcani è stato chiaro a tutti che la crisi dei profughi era ormai arrivata nel cuore dell’Europa. Sembrano un lontano ricordo le rivolte davanti ai centri di accoglienza, come quella di Tor Sapienza, che alla fine dello scorso anno dominavano la scena politica nazionale. Ma se la disposizione dei cittadini appare mutata, non cambia l’approccio delle istituzioni. Come spiega l’ultimo Rapporto accoglienza del ministero dell’Interno nel 2015 il 70 per cento delle strutture deputate all’accoglienza di profughi e richiedenti asilo è un Cas (Centro di accoglienza straordinaria). A livello centrale dunque si continua a ricorrere a un sistema emergenziale per far fronte a un fenomeno ormai strutturale nel nostro paese. E così mentre lo Stato tampona, ricorrendo a strutture non sempre adeguate, i cittadini si rimboccano le maniche, mostrando che un altro modo di fare accoglienza è possibile. (ec)